Quale sarà il nostro lascito agli altri? Che cos'è che davvero noi diamo? Quando si parla di eredità, dovrebbe essere chiaro che le cose materiali sono l'aspetto meno importante di una trasmissione che, se è unicamente quella dei diritti di proprietà di questo o quell'altro, non si consuma. Le eredità vere, quelle che ci confermano in una determinata filiazione o lignaggio, devono per forza essere più ampie e, al tempo stesso, più irriducibilmente personali della pura materialità. Non c'è lascito maggiore di quello di una vita fatta dono e, quando ciò avviene, la vita si rivela in quello che ha di profondo e di enorme, di gracile e di seducente, di speranzoso e possibile. Non c'è lascito maggiore del trasmettere una di quelle scintille, quali che esse siano, in cui viene a brillare l'infinito. Che vi siamo pervenuti attraverso un viaggio o un radicamento, attraverso una passione o un grande dolore, attraverso il giubilo o la limitatezza, un frammento d'infinito è l'unica cosa senza prezzo che può legarci al di là dello spazio e del tempo. Parole sagge, quelle del testamento di Ryokan (1758-1831), il monaco-poeta giapponese: «Come ricordo,/ voglio lasciare/ i fiori della primavera,/ il canto del cuculo d'estate,/ i colori dell'autunno».