Anche social e web sono armi da guerra
Sono passati 2.500 anni circa da quando Eschilo scrisse che in guerra la prima vittima è la verità, ma non è cambiato niente. Anzi, come abbiamo già visto nella guerra in Ucraina, grazie al digitale le cose se possibile sono peggiorate. Da una parte Internet (con web e social) è diventato un ulteriore campo di battaglia, usato anche per terrorizzare, accusare e disinformare. Dall’altra, soprattutto i social, sono diventati terreno di scontro non tra la verità e la falsità, ma tra due parti. Tra due - ci tremano i polsi a scriverlo vista la drammaticità degli eventi e il gran numero di vittime - tifoserie. Palestinesi e israeliani lo sanno bene e usano (anche) la Rete per darci quello che vogliamo: ottimi motivi e “prove” per caricarci di orrore, di sdegno e di rabbia da sfogare sul «nemico». Per accusare gli altri. Per dirci che i nostri, la nostra parte, fa bene a fare quello che fa perché gli altri l’hanno già fatto prima e magari anche peggio. «La disinformazione - ha scritto il sito di giornalismo investigativo Bellingcat che smaschera le bufale e le fake news in Rete - si è diffusa rapidamente online, da quando Hamas ha lanciato un attacco a sorpresa contro Israele il 7 ottobre. E ancora:
«Negli ultimi giorni, post virali sui social media hanno presentato filmati vecchi di anni, o filmati provenienti da zone di conflitto completamente diverse, come raffiguranti l’ultimo bombardamento israeliano di Gaza. Hanno affermato senza fondamento che il video di una ragazza scomparsa in un paese di lingua araba è un ostaggio israeliano a Gaza e hanno postato video della distruzione da parte di Israele della chiesa greco-ortodossa di San Porfirio a Gaza. Cosa smentita dalla pagina Facebook della chiesa stessa». A rendere ancora più complicate e tossiche queste pseudo informazioni c’è il fatto che spesso intrecciano fatti autentici con dicerie e bufale. E il risultato è un mix tra vero e falso che diventa sempre più difficile da smascherare. Con l’arrivo dell’intelligenza artificiale infatti sta diventando sempre più facile e sempre meno costoso costruire contenuti falsi o fuorvianti mentre diventa sempre più difficile e costoso smascherarli. Il risultato è che tutti noi quasi senza accorgercene, stiamo facendo sempre più nostra una nuova versione dell’antico adagio «non è vero ma ci credo» che potremmo riscrivere così: «anche se non dovesse essere vero, ci credo». Ci voglio credere. Mi serve crederlo.La situazione della disinformazione nel digitale e che dal digitale finisce poi anche in certi programmi tv e in certi siti di notizie è molto complessa e gli esempi potrebbero continuare a lungo. Ci preme qui però aprire altri due capitoli del problema. Il primo riguarda soprattutto i social. Se Facebook, Instagram e X (l’ex Twitter) pur tra mille difficoltà stanno cercando di frenare le peggiori derive e bloccare la diffusione delle immagini più terrificanti, Telegram per scelta non censura nulla. E quindi lascia libero campo a qualunque disinformazione e a qualunque diffusione di video e immagini particolarmente agghiaccianti. In questo modo diventa il posto dove cercare prove il più possibile scioccanti e sanguinose per usarle contro “il nemico”, contro gli altri “tifosi”. Il tutto senza alcun rispetto per le vittime.
C’è ancora un capitolo importante del modo col quale stiamo usando la Rete in questo drammatico momento. Ed è come la usiamo per cercare e trovare “prove” (dichiarazioni, video, vecchi post) per attaccare i nostri nemici. Come se ridurre al silenzio gli altri fosse un nostro dovere di cittadini digitali. Mi sbaglierò ma a me sembra solo l’ennesima sconfitta.© riproduzione riservata