Anche l'Olimpiade si mette in marcia verso i monitor
(indipendentemente dal fatto che ci piaccia o no) la tesi secondo cui i videogiochi sportivi siano diventati un vero e proprio codice culturale che ci svelano una direzione verso la quale il mondo si sta muovendo. Questo "movimento" ha subito una brusca accelerazione dopo l'ultimo vertice del Comitato olimpico internazionale, tenutosi presso la storica sede di Losanna.
Partiamo, tuttavia, dall'inizio: se guardiamo alla nascita del fenomeno scopriamo che la "prima volta" fu il 19 ottobre 1972 quando l'Università di Stanford, in California, organizzò il primo torneo di videogiochi della storia. Si chiamavano "Olimpiadi intergalattiche di SpaceWar" e parteciparono in cento. Nel 2016 le persone che hanno assistito a una partita di eSport (ovvero quando si "gioca" a un videogame a livello competitivo e professionistico) sono state oltre 200 milioni, per un giro d'affari che si stima nel 2017 raggiungerà il miliardo di dollari. Eh sì, il parametro economico, come sempre, rende molto bene la dimensione del fatto. Un esempio? Il Tour de France ha un montepremi complessivo di circa due milioni di dollari, mentre il torneo mondiale del 2016 di Dota 2, un videogame dove l'obiettivo delle squadre è quello di distruggere la fortezza avversaria controllando un proprio eroe, ha messo in palio un montepremi dieci volte superiore: quasi 21 milioni di dollari. Insomma, la cosa non poteva sfuggire all'occhio attento del Cio, impegnato in uno strenuo tentativo di tener viva e al passo con i tempi la manifestazione a cinque cerchi. Così, nel recente vertice di cui parlavo, il Comitato ha definitivamente aperto verso i videogiochi, arrivando a diffondere un comunicato ufficiale dove per la prima volta si sostiene che «possono essere considerati delle discipline agonistiche vere e proprie» e ammiccando di fatto all'idea che, presto o tardi, possano diventare discipline olimpiche. L'Asia sembra essere, anche questa volta, avanguardia: ai Giochi Asiatici del 2018 che si terranno in Indonesia i videogiochi saranno "sport dimostrativo", mentre le prime medaglie vere saranno assegnate nell'edizione successiva del 2022.
I puristi (o forse gli ultimi rappresentanti dell'Ancien Régime?) del mondo dello sport si erano appena ripresi dalla notizia che a Tokyo 2020 esordiranno nel programma dei Giochi il surf, l'alpinismo sportivo e lo skateboard. Insomma, sport abbastanza lontani dall'immaginario tradizionale (ma non era così anche per la mountain bike o il beach volley fino a qualche anno fa?) che, tuttavia, mantengono un'enorme componente di fisicità, espressione corporea e, verrebbe da dire, anche di contatto con l'aria aperta, che male non fa.
Le tesi a favore dell'ingresso dei videogiochi nella famiglia olimpica si fondano sul fatto che la diffusione del fenomeno è planetaria e che gli atleti del joystick si allenano con un'intensità paragonabile a quella degli sport tradizionali. Ci sono infatti campioni che lavorano con staff che non hanno nulla da invidiare alle star dell'atletica leggera, del basket o del nuoto. Kuro Takhasomi, un venticinquenne tedesco che si avvicinò al mondo dei videogiochi a causa di una disabilità agli arti inferiori, si allena quotidianamente con fisioterapisti, preparatori atletici, psicologi e ha depositato sul suo conto in banca, grazie all'abilità nel giocare a Dota 2, una cifra di poco inferiore ai tre milioni di euro negli ultimi anni di carriera. Insomma, la rivoluzione è in cammino: se lo sport sia centro o periferia di questa mutazione, lo scopriremo probabilmente fra qualche anno. In attesa di sapere se, come qualcuno sostiene, a Parigi nel 2024 applaudiremo il primo campione olimpico di eGames, regaliamoci ancora qualche anno di nostalgia di un mondo dove lo sport era quello fatto su un prato, un parquet, una piscina e non su di un monitor.