L'ospite ritardatario della nostra domenicale Jasnaja Poljana era il camionista Ambrogio, come il vescovo emblema di Milano che battezzò Agostino inventando, all'unisono con lui, il «Veni creator spiritus». Ambrogio incedeva lento e un po' ieratico, i piedi quasi piatti sostenevano una pancia ragguardevole. Somigliava, per le dimensioni, a quella statua del San Carlon de Arona, nel cui naso, si dice, ci stiano comodamente due persone a giocare a carte. Il suo bicchiere di vino se lo beveva subito e buona sera. I suoi due cani da caccia si chiamavano Tosca e Diana, una pucciniana, l'altra mitologica. Aveva comprato, a rate, un camion ma gli interessi erano troppo alti. Prese a lavorare anche la domenica. Il giorno non aveva abbastanza ore di fatica per saldare quel debito che divenne una voragine. Si privò del fucile da caccia, poi dei cani, infine gli sequestrarono il camion. Ambrogio dimagrì, si isolò e sparì. Il suo funerale fu fatto quasi clandestinamente, come se fosse lui l'estorsore anziché l'estorto. Il mio «cave canem», guardati dalla giustizia, incominciò lì nella mia infanzia. Ambrogio fu sepolto in una fossa comune e le sue ossa andarono disperse, come quelle di Wolfang Amadeus Mozart.