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Allevi & Corona, ormai solo «popstar della cultura»?

Cesare Cavalleri mercoledì 9 febbraio 2011
Il libro di Alessandro Trocino, Popstar della cultura (Fazi Editore, pp. 240, euro 18), è molto divertente e documentato. Contiene sei ritratti al vetriolo di altrettanti personaggi balzati al successo sull'onda di un consenso massmediale non proporzionato ai loro meriti: la schiera sarebbe ben più vasta, ma questi sei sono certamente rappresentativi.
Il curriculum del pianista e compositore Giovanni Allevi è vivisezionato impietosamente, anche con citazioni da Avvenire. Il riccioluto personaggio è seguito passo passo dagli esordi nella scuderia di Jovanotti, poi abbandonata o dalla quale è stato scaricato, fino al concerto nell'aula del Senato; un percorso scandito da efficientissime operazioni di marketing, equilibristiche interviste, apoftegmi imbarazzanti.
Carlo Petrini, il fondatore di Slow Food, è tallonato nelle sue acrobazie di schieramento, dagli esordi nell'ultra sinistra ai recenti flirt con la Lega, e viene smantellata la sua filosofia bucolica alla Celentano, basata su osservazioni «scientifiche» fasulle, che portano acqua al mulino del business.
Beppe Grillo «deride, sbeffeggia, addita, insulta, denigra, deforma. Sempre con un ghigno sulle labbra, lo sguardo fiero e sprezzante di chi esibisce una superiorità morale, la voce tonitruante di chi esige di essere dalla parte della ragione». In effetti, le citazioni contenute nel libro sono francamente rivoltanti, e Trocino ha buon gioco nello stigmatizzare il comportamento dell'ex comico diventato imbonitore, che evita ogni confronto trincerandosi nel suo blog, e che ormai è stato sgombrato perfino da Di Pietro.
Mauro Corona, lo scrittore tagliaboschi che si esibisce nei talk show televisivi con l'aura del buon selvaggio, è restituito alla sua statura di macchietta. E trattamento non migliore tocca al vegliardo Andrea Camilleri che, dopo una gavetta pluridecennale negli uffici della Rai a cucinare Il tenente Sheridan e Il commissario Maigret, è balzato settantenne alla notorietà, prima osannato dalla critica, e poi giustamente demolito per la sua fasulla sicilianitudine linguistica e per la serialità delle sue sfilacciate. Insopportabili, poi, le sue recenti invettive politiche, snobbate anch'esse dal solito Di Pietro.
Ma il trattamento più ampio e particolareggiato è riservato a Roberto Saviano. Trocino riconosce pienamente il valore di Gomorra, «un'opera che ha meritoriamente attirato l'attenzione sull'urgenza della lotta contro la criminalità organizzata. Un'opera che ha svelato i meccanismi globali, economici e sociali della camorra. Un'opera che ha saputo dare corpo a una militanza che non è una diminutio definire anche e soprattutto letteraria». Ma è come se lo straordinario e sacrosanto successo abbia dato alla testa del giovane autore, il quale si è messo a pontificare in un allarmante crescendo, fino a Vieni via con me, la trasmissione che il critico televisivo del Corriere, Aldo Grasso, ha giustamente definito «il calco di una cerimonia religiosa, di una messa, di una funzione liturgica».
«Sovradeterminato dalla Causa che rappresenta e incarna», Saviano è abusivamente subentrato a Pasolini, un'icona presenzialista che addirittura si sente in obbligo di scrivere una lettera di retorico patetismo per la tragica morte di Pietro Taricone. E Saviano è sulla strada per restare autore unius libri: «Bisognerebbe, forse, leggere di più Gomorra e ascoltare di meno Saviano», è la conclusione.
Ma tutto questo accanimento contro «le popstar della cultura», dove conduce se Trocino riconosce che esse sono lo specchio fedele di «un Paese che preferisce nutrirsi di uno stato di indignazione permanente, piuttosto che provare a cambiare lo stato delle cose»? Cambieranno, dopo questo libro, le cose?