C’era un gran lavatoio di pietra, nel cortile della casa delle nostre estati. Dalla canna l’acqua scendeva generosa, fresca. Usciva, il getto, giorno e notte, con una sorta di borbottio, di cantilena sempre uguale. Mi pareva sussurrasse qualcosa.
Formava nella vasca, sul fondo scuro di muschi, uno specchio limpido. Bambina, nei giorni più caldi ci immergevo le mani, le braccia, finché dal freddo non sentivo male.
Nell’acqua della fontana rivedo specchiata la mia faccia tonda, infantile, e la treccia bruna. I miei occhi interrogativi dentro quello specchio tremante, percosso dal getto. Cosa sarò da grande? E come sarà, diventare grande? Davanti a me il tempo sembrava una distesa infinita.
Ma mi piaceva essere bambina, e che la sera mi venissero rimboccate le coperte. Mi piacevano le mie mani piccole accanto alle mani ruvide della vecchia ampezzana che faceva il bucato, strofinando forte il sapone di Marsiglia. La sua faccia antica, con rughe profonde come solchi, accanto alla mia, nello specchio della fontana. Sarei diventata anche io così, un giorno?
Impossibile, sorridevo, come a un pensiero assurdo, come a una nuvola da nulla che solo per un istante oscuri il sole.
Ora ho i capelli grigi. Eppure, è strano, vive ancora in me, in certi giorni, la bambina che si specchiava nel lavatoio, innamorata del getto d’acqua limpido, incessante - che anche la notte mormorava la sua cantilena.
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