Non conoscevo Alfredo di persona, tuttavia ho letto in tantissimi messaggi pieni di emozione, che aveva due grandi amori: la sua Rossella e la squadra di pallavolo di Modena. Non l’ho conosciuto di persona, ma aveva più o meno la mia età e sono certo che sarà stato sulle tribune del PalaPanini chissà quante volte da tifoso e mio avversario, quando io giocavo lì con uno dei club che ho allenato; oppure con la passione di chi tifa la maglia azzurra, quando ci andavo alla guida della nostra squadra nazionale. Ci ha pensato, con un toccante comunicato, la società Modena Volley a chiarire chi fosse Alfredo Barbieri, il super-tifoso di pallavolo tragicamente scomparso insieme alla sua Rossella, entrambi persone con sindrome di Down, due delle sette vittime del terribile incidente stradale avvenuto venerdì scorso a San Donà di Piave, sull’autostrada A4. «Non era mica così semplice andare d’accordo con Alfredo – scrive il club modenese –. Alfredo era buono come il pane, ma aveva il suo bel caratterino. Alfredo era diretto come pochi, e sapeva farti ridere e pensare, bastava uno sguardo, parlava anche solo con gli occhi. C’era una cosa che ad Alfredo non potevi mica toccare, era l’amore incondizionato verso la pallavolo, verso la sua Modena Volley. Ha reso il PalaPanini un posto migliore, ha tifato, sempre, e ci è venuto mille volte a trovare in ufficio, a darci consigli e anche a tirarci le orecchie». Non lo conoscevo di persona, ma ho incontrato Alfredo tante volte in quei ragazzi speciali, capaci di regalare amore incondizionato allo sport come gli atleti con sindrome di Down che sono diventati, un paio di settimane fa, e per la terza volta consecutiva, campioni del mondo di basket, oppure come gli atleti degli Special Olympics. Non conoscevo quelle persone che si prendevano cura di Alfredo e dei suoi compagni di viaggio, scomparsi nell’incidente stradale mentre andavano con loro a raccontare progetti, ma li ho incontrati in quegli uomini e quelle donne che fanno vivere le associazioni, da volontari o educatori, e che fanno salire su pulmini proprio uguali a quello lì ragazzi cui donano gioia di vivere e da cui ricevono in cambio ricchezza che non si misura in denaro. Sulle nostre reti autostradali circolano ogni giorno migliaia di pulmini, cellule di felicità, guidati da persone che si caricano sulle proprie spalle, tutt’altro che metaforicamente, responsabilità enormi. Lo fanno perché se non lo facessero loro, non lo farebbe nessun altro. Ci sono centinaia di migliaia di persone che conoscono un unico modo di far funzionare le cose: tirarsi su le maniche. Qualche volta arriva una tragedia a farci ricordare della loro importanza, nel rispetto della famosa storia che sentiamo di più il rumore di un albero che cade rispetto a quello di un’intera foresta che cresce. Questa tragedia ha colpito un mondo che vive per i momenti come quelli della trasferta in pulmino; chiedete loro e vi spiegheranno la libertà, le risate, i canti stonati, le fermate in autogrill. Segnali di vita, nella massima espressione di intensità. Qualche volta, tragicamente, irrompe la morte, ma come recita una strofa de “L’assurdo mestiere” cantata da Giorgio Faletti: «Fa che la morte mi trovi vivo». E la morte ha trovato vivi tutti i ragazzi e gli operatori del Centro 21 di Riccione e ha reso noi più consapevoli dell’esistenza di un esercito di persone straordinarie che meritano rispetto, diritti e tutele.
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