Primi di gennaio a Milano. Cielo grigio, poca gente in giro, quell’aria da limbo che sta sospesa nell’iniziare di un anno, quasi che il tempo camminasse ancora incerto. Mi si para davanti un uomo con i capelli grigi, dimesso. Si trascina dietro un trolley gonfio, sulla maniglia ha steso una coperta di lana ad asciugare, dopo un’umida notte. (Dormire fuori in queste notti, mio Dio, penso).
Un clochard precocemente invecchiato dalla miseria, forse dall’alcol. Ma mi fa un sorriso disarmante: «Non è che mi regala i soldi per un panino? Sa, davanti al super c’è già il nero, stamattina non ho raccattato niente». Apro la borsa, allungo i soldi in fretta, quasi con vergogna – vergogna di dare così poco. Vergogna forse di avere una comoda casa, mentre quest’uomo dorme sulle panchine. Ogni volta che incontro un clochard mi domando cosa ho fatto io, per avere tutto, e cosa ha fatto lui, per non avere niente.
Mentre però vado così ragionando il clochard si infila in tasca quei pochi euro, e mi sorride. Che sorriso: si illumina, sembra davvero contento di poter entrare in un bar, e mangiare qualcosa. Mi lascia stupefatta, in questa Milano color asfalto, piovosa.
Lui è contento, io rincaso a testa china, oppressa: da ciò che non do, da ciò che non faccio. La casa è calda, il frigo pieno, un gatto fa le fusa. La tv spenta mi sta davanti, nera, muta come qualcuno che non c’è, e non cerco abbastanza.
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