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Agroalimentare, allarme export

Andrea Zaghi sabato 17 novembre 2007
Per le esportazioni agroalimentari così non va. Certo, il made in Italy enogastronomico suscita sempre grandi invidie nel mondo, viene osservato e imitato, ma i numeri che le statistiche tirano fuori sono chiari: si fa ancora poco su questo fronte e, soprattutto, spesso si fa male. A confermare questa situazione, proprio ieri, sono arrivati altri dati che devono far pensare. Tutto, poi, accade proprio negli stessi giorni in cui le prime stime sull'annata agraria 2007 parlano apertamente di un calo della produzione agricola che sfiora il 2% mentre già era stato delineato un ulteriore abbattimento dei redditi degli agricoltori. A effettuare la diagnosi più recente della "malattia" dell'agroalimentare italiano è stata Nomisma che " nel giorno di apertura di Agrifood, la manifestazione scaligera dedicata proprio all'export agroalimentare italiano nel mondo " ha presentato un'indagine sugli aspetti organizzativi delle vendite all'estero delle aziende del Paese. A vincere sarebbero le imprese che riescono a coniugare meglio specializzazione produttiva e immagine del prodotto. Anche se, come è ovvio, contano molto i prezzi di vendita e i canali di distribuzione. I numeri sull'export spiegano, secondo Nomisma, che negli ultimi anni la quota italiana sulle esportazioni mondiali di prodotti agroalimentari è leggermente arretrata, passando dal 3,2 al 3,1% in termini di valore, per un importo pari a quasi 22 miliardi di euro e questo nonostante il peso relativo del settore agroalimentare sull'economia nazionale sia passato nello stesso periodo da 82 a 91, facendo 100 la media mondiale.
E non solo, perché per quanto riguarda l'agricoltura in senso stretto, il ruolo si fa ancora più risicato se si pensa che sul totale del giro d'affari, quello coperto dall'industria alimentare arriva a 16,7 miliardi. Tutto senza contare, per quanto riguarda il mercato interno, la sproporzione fra il ruolo dei produttori agricoli e quello dell'industria oppure della distribuzione.
In ogni caso, il verdetto degli operatori che emerge dall'indagine non lascia spazio a dubbi: serve uno scatto di fantasia, qualcosa che non è mai stato tentato. Ma cosa? Stando alle risposte, la criticità maggiore è sempre legata alle strategie di promozione e di comunicazione. Ma probabilmente questo non basta. Oltre alla qualità e alla sicurezza alimentare (che devono essere date per scontate), servono certamente più accordi di distribuzione, più attenzione ai livelli di prezzo, una maggiore capacità di
organizzazione logistica. Tutte condizioni che si scontrano con la realtà prevalente fatta, solamente per l'industria, di oltre 32mila aziendine da tre dipendenti ciascuna, di una filiera che alla fine dei conti è ancora troppo frammentata e sbilanciata, i cui attori non perdono occasione di litigare e stentano poi a trovare accordi duraturi. Ma organizzazione e logistica sono proprio quanto chiedono i buyer arrivati a Verona per capire cosa offre l'agroalimentare dello Stivale.