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Agonistici come Falcone, contro tutti i ladri di speranza

Mauro Berruto mercoledì 25 maggio 2016
Calcio e camorra. Calcio e scommesse clandestine. Calcio e malaffare. Ci risiamo, ancora una volta. Il gioco più bello, più planetario, più universale che esista torna a essere oscurato dalle ombre lunghe della criminalità, dalla vergogna di un denaro che ne è padrone e ne violenta ogni principio. Il giocattolo si rompe con una regolarità impressionante. Ciclicamente, quasi senza speranza. Tuttavia, la speranza di veder cambiata tanto la nostra società quanto questo calcio che la rappresenta è un sentimento che non si concede facilmente e di cui bisogna andare continuamente alla caccia.A caccia della speranza si va aggrappandosi, per imitazione, a quei giganti sulle cui spalle vorremmo imparare a sederci più spesso. Pochi giorni fa abbiamo commemorato, come da ventiquattro anni a questa parte, la memoria di Giovanni Falcone nel giorno del suo barbaro omicidio. Giovanni Falcone era un vero innamorato dello sport. Per lui, fanatico dell'allenamento, la competizione agonistica era espressione pura e meravigliosamente estetica della fatica. Per Giovanni Falcone il sudore, la ripetizione, il metodo, la pervicacia, la testardaggine erano gli elementi fondanti dell'agonismo, inteso come quel vero "agón" ellenico di cui parlò Friedrich Nietzsche in un breve e illuminante saggio – L'agone omerico – che, nella sua brevità, è uno strumento eccellente per capire lo sport moderno.Nietzsche, parlando del carattere agonale dell'antica civiltà greca, ne spiega il fondamento: una sorta d'invidia positiva che fa sì che chi vede un altro eccellere sia istintivamente e immediatamente spinto al confronto. La Grecia di Nietzsche è una terra di gente abituata al sospetto, all'invidia, alla difesa o, ancor di più, all'attacco. Tuttavia, sostiene il filosofo tedesco, non potrà mai esistere un dominatore assoluto perché metterebbe fine al confronto agonale stesso. Se questo dominatore assoluto esistesse, andrebbe allontanato, perché altrimenti sarebbero gli dei in prima persona, invidiosi anch'essi, a porre un limite a questa egemonia. La storia dello sport moderno è tutta in questo meccanismo: viviamo nell'attesa che Coppi sfidi Bartali, che Mohammed Alì faccia a pugni con Foreman, che Senna superi Prost, che Maradona (addirittura valicando i confini del tempo) sfidi Pelé. Viviamo nell'attesa dei derby, degli arrivi in volata, dei fotofinish. Il vincitore viene ricordato in eterno, del secondo, invece, nessuna traccia.Giovanni Falcone era un fanatico del ping-pong e del calcio, amava il canottaggio che praticava, con passione e metodo, remando al club "Roggero di Lauria" a Palermo. Smise di allenarsi in soli due momenti: per laurearsi e per il concorso da magistrato. Interpretava lo sport come una metafora privilegiata per spiegare al mondo intero come si fa ad andare dritto all'obiettivo. Diceva: «Che le cose siano così non vuol dire che debbano andare così. Solo che, quando si tratta di rimboccarsi le maniche e incominciare a cambiare, vi è un prezzo da pagare, ed è allora che la stragrande maggioranza preferisce lamentarsi piuttosto che fare». C'è un prezzo da pagare anche per liberare il nostro calcio dalle tentazioni della criminalità. Fare, piuttosto che lamentarsi. Perché se il demone dell'invidia spingeva i Greci del mondo classico a competere, possa esserci un "agón" pronto a farci muovere alla volontà di competere contro la delinquenza, il malaffare, il crimine organizzato.Competere dunque, facendo. Non lamentandosi, né per invidia. Semplicemente forti di quella testardaggine che Giovanni Falcone aveva imparato dallo sport, contro l'egemonia di chi, rubandoci il gioco più bello del mondo, si diverte a immaginarci bambini terrorizzati.