Fra i tanti che hanno salutato Eusebio, morto domenica a 71 anni, Cristiano Ronaldo, il suo erede, ha trovato la parola giusta per fermarlo nella memoria, nel tempo: “Eterno” -ha detto - certo ricordando anche l'eroe della sua giovinezza, l'ispiratore primo, colui che gli ha dato il viatico per affrontare il lungo viaggio verso la gloria degli stadi. “Eterno” non per assecondare la retorica dell'addio, sempre in agguato quando se ne vanno i Grandi, ma per precisare il ruolo di quel giovanetto del Mozambico che, lasciata la sua povera terra travestito da ragazza per entrare a far parte di un importante club di Lisbona, lo Sporting, sottratto con questo trucco al potente Benfica, finì per legare il suo destino proprio a quest'ultimo club col quale è entrato prima nelle cronache sportive, poi nella storia del Portogallo, infine nella leggenda del grande calcio. Da una parte le sue gesta di campione che lo fecero definire prima “la Perla Nera” eppoi la “Pantera Nera”, dall'altra Amalia Rodrigues che quasi al suo fianco realizzava la colonna sonora di un'epoca indimenticabile singhiozzando il fado nelle taverne di Lisbona. Così ho conosciuto Eusebio da Silva Ferreiro, alternando la visione delle sue partite ai concerti di Amalia e gli applausi e i sorrisi che accompagnavano i gol del primo alle lacrime sollecitate dalla splendente ammaliatrice di cuori. Giunsi a Lisbona per lavoro e per curiosità, alla fine dei Sessanta, perché Eusebio aveva rivestito i panni del Vendicatore quando, ai Mondiali del '66, in Inghilterra, i suoi gol avevano respinto l'assalto dei Nordcoreani: Pak Do-Ik e i suoi “ridolineschi” compagni avevano già mandato a casa l'Italia e stavano vincendo tre a zero con il Portogallo quando lui, Eusebio, chiuse la pratica con quattro gol e propiziando il cinque a tre finale. Un episodio, niente di più, nel palmarés di Eusebio, ma per noi italiani più importante dei tanti che ha consegnato alla storia realizzando 462 gol, conquistando undici scudetti e una Coppa dei Campioni col Benfica, vincendo due volte la Scarpa d'Oro e una il Pallone d'oro, primo uomo di colore - si precisa - quasi a voler significare una crescita faticosa, anche dolorosa, verso il successo. Non me ne sono mai accorto perché Eusebio - pur negli anni difficili della dittatura di Antonio Salazar - non ebbe a soffrire pene razziste, diventando mito vivente al punto di vedere erigere davanti all'Estadio da Luz la sua statua. L'amore del Portogallo per Eusebio non ha mai avuto significati politici ed è diventata passione civile confortata dalla sua più grande qualità, l'umiltà, così rara nei campioni come Pelè, più volte chiamato a un confronto che Eusebio non è riuscito a vincere forse perché il Paese innamorato non gli ha mai consentito di migrare nei campi d'oro - se non all'età della pensione, rapida esperienza statunitense - che se lo sarebbero conteso: troppo tardi le squadre italiane - Juve, Torino, Genoa, Inter e Sampdoria - capirono di avere sbagliato a rifiutare il piccolo ragazzo del Mozambico offertogli da Ugo Amoretti, un vecchio “azzurro” che fu il suo primo maestro. Umile - dicevo - nonostante fosse una forza della natura, dotato di grandi qualità fisiche e tecniche che lo condussero a mille trionfi senza che il suo atteggiamento amabile, fin timido, prorompesse in gesti degni di un miles gloriosus. Umile anche nel riconoscere l'altrui grandezza quando molti lo volevano - soprattutto dopo il Mondiale del '66, Portogallo terzo dopo Inghilterra e Germania - al vertice del mondo del pallone. Condividemmo un'idea, al proposito: che il più grande fosse non Pelè ma Alfredo Di Stefano. Non dimenticherò mai quei giorni di Lisbona quando, dopo avere visitato la casa natale di Fernando Martins de Bulhoes - il nostro Sant'Antonio da Padova - chiesi a un collega di accompagnarmi a Villa Italia, dimora dell'ultimo nostro re, Umberto di Savoia: «Ti porto da un re in esilio – mi disse – ma dovrai anche conoscere un Re nel pieno del suo potere, Eusebio».