Avevi un nome gentile: Milena. Chiamarti era come pronunciare le prime note di un canto e una musica era sembrata a me, che ti vedevo per la prima volta, anche il tuo ridere appieno. C’era la guerra nei Paesi d’Europa quando avevi lasciato la tua isola per venire a conoscere la famiglia del tuo promesso sposo. Come in un’antica favola avevi attraversato il mare senza immaginare che ti avrebbe diviso con le sue onde attraversate dalle navi da guerra e avrebbe nascosto al tuo orizzonte l’amata Sardegna, i tuoi cari e i tuoi amici per tanto tempo. È così che ti ho conosciuto un giorno di pianti, quando il tuo fidanzato richiamato alle armi ti aveva lasciato ospite della tua futura famiglia, che abitava un piano al di sotto del mio. Le lacrime si asciugano presto quando si hanno 18 anni e tanta voglia di vivere. I nostri paltò erano già stati rovesciati, ed eravamo riuscite a farci cucire con vecchie tende a disegni bianchi e marroni dei vestiti uguali e con i resti della stoffa avevamo fatto delle cravatte che vendevamo agli amici. Si cercava in ogni modo di avere qualche soldo senza chiederlo in casa. Io avevo anche imparato da un vecchio calzolaio come fare i sandali con le suole di sughero. Era stato convenuto che a me sarebbe toccato il lavoro duro, cioè incollare, battere i chiodi, cucire e a te – che avevi fantasia – il piacere di scegliere il colore e il disegno. Quando finalmente se ne vendeva un paio, andavamo a comperare qualche fetta di castagnaccio all’angolo della strada. Erano i tempi oggi dimenticati, nei quali si viveva con la tessera annonaria, che vuol dire contare le patate una ad una e nasconderle qualche volta anche al proprio vicino di tavola. Ma che importava, i giovani anni ci facevano vedere il sole anche quando nuvole nere di sconfitte e di morte passarono nel nostro cielo. Mia madre riuscì finalmente a procurarsi un po’ di farina, di strutto, e qualche uovo per farti la torta di nozze e mai più ne mangiammo una così buona dove le chiare sbattute fingevano di essere panna montata. C’era una vita da ricominciare, un futuro da ricostruire per tutti ascoltando le parole che mio padre aveva detto un mattino alla radio: «Diamoci la mano, uomini e donne di buona volontà». Mia cara amica, abbiamo affrontato la vita assieme, il matrimonio, i figli: tu con tre bambine e io con tre maschietti. Ricordi quando li portavamo a Ostia in una sola cabina per risparmiare e si mangiava crocchette e sabbia, piccoli pianti sotto le docce all’aria aperta e risate quando si scambiavano i sandali, i costumi uno con l’altro: «Ciao, ci vediamo domani! ». Il domani non fu sempre facile, non ci sono mancati il dolore e i lunghi silenzi, ma sullo sfondo dei nostri giorni c’è sempre stato quel canto del tuo nome, Milena che oggi ancora ci resta anche se ci hai lasciato con un piccolo sospiro come fosse giusto, perché era finito il tuo compito qui fra noi.0