Il tennis come un gioco di società, con il the da bere al cambio di campo, rigorosamente in tazza di porcellana. La gonna bianca fino ai piedi, la cintura in vita, le maniche a sbuffo, le scarpine di pelle nera con il tacco basso, l'acconciatura raccolta, come appena uscita dal parrucchiere. Senza cappello però che all'epoca era accessorio d'obbligo per le signore. Parigi, anno 1900: l'inglese Charlotte Cooper scende in campo così, con la sua racchetta di legno, per diventare la prima donna nella storia a vincere una medaglia d'oro ai Giochi. Una partita difficile, iniziata con un gran rifiuto. Il barone Pierre de Coubertin, sopravvalutato simbolo dello spirito sportivo universale, padre delle Olimpiadi moderne e misogino dichiarato, giudicava lo sport femminile «la cosa più antiestetica che gli occhi umani possano contemplare»: finché riuscì, si oppose alla loro partecipazione. Vestali coreografiche, come nell'antica Grecia, buone per incoronare i vincitori, ma atlete no, massima eresia. Parigi però in quei giorni si regala un'aria di primavera, i Giochi si disputano durante l'Esposizione Universale, c'è fermento, e caotica voglia di nuovo. Così inizia la lunga marcia: sono appena 22 le femmine su 997 partecipanti. A Rio 2016 saranno il 45% del totale, e a Tokyo tra un mese, tante quante i maschi. Senza quote rosa: solo testa, volontà e muscoli quando servono. Per non dover pensare, come in tanti altri campi, che si è nate nella parte svantaggiata del tabellone. Senza più sentirsi dire: sei donna, lascia perdere.