Ci sono volute 770 pagine per raccogliere i “Colloqui” pubblicati da Salvatore Quasimodo sul settimanale “Tempo”, dal 1964 al 1968, anno della sua prematura morte. Con le introduzioni e gli indispensabili indici si arriva alle 900 pagine. Ci si sono messi in parecchi, per portare a termine l'impresa che ora appare col titolo, appunto,
Colloqui, ed è pubblicata da Larcaelarco di Nola (euro 55,00). All'origine c'è la tesi dottorale di Carlangelo Mauro, curatore dell'intero volume e autore di un ampio e ben informato saggio; la vasta introduzione è firmata da Giuseppe Rando, dell'Università di Messina; la premessa è di Elena Candela, dell'Orientale di Napoli; Sergio Mastroeni documenta la partecipazione del Parco letterario Quasimodo di Roccalumera, e Paola Ciccioli ha intervistato Alessandro Quasimodo, figlio del poeta. Insomma, una nutrita pattuglia, e ne valeva la pena. La lettura è quasi avvincente. In questi “Asterischi” giornalistici, il maleamato (non da me) Nobel 1959, spesso in risposta alle sollecitazioni dei lettori, si sbizzarrisce in incursioni nell'attualità, non solo letteraria e delle arti visive, ma anche di costume, Rolling Stones compresi. Ed è sorprendente il fervore di quegli anni, segnati anche dall'irrompere della neoavanguardia del Gruppo '63, verso la quale Quasimodo è tagliente: «Non si possono eleggere a termine di paragone le opere che non arrivano al nucleo della poesia ma che si stabiliscono nella roccaforte dei dogmi, dominio esclusivo dei giochi cerebrali»; e ancora, nel 1966: «Oggi, a tre anni di distanza, il Gruppo '63 è dichiarato già vecchio, anzi fuori combattimento, dalle generazioni yé-yé». Devo giustificare il “maleamato Nobel 1959”. Lo spiega bene Giancarlo Vigorelli nell'articolo in morte del poeta, pubblicato in appendice. L'establishment letterario, capitanato da Emilio Cecchi forse istigato da Montale, storse il naso perché, ad avviso dei maggiorenti, Ungaretti, Montale e perfino Saba l'avrebbero meritato prima di Quasimodo. Anche Vigorelli è d'accordo sui meriti di Ungaretti e Montale, ma fa due osservazioni: nel 1959 Quasimodo era più noto all'estero che non i due illustri colleghi, e questa non è una colpa; inoltre, nel 1959, con la sterzata post-ermetica della sua poesia, Quasimodo era più “vivo”, più aperto al futuro, degli altri due, e a ragione. Mi piace, per l'occasione, riportare i nomi di chi, con Vigorelli, allora difese Quasimodo: Carrieri, Tofanelli, Zavattini, Sinisgalli, Fontana, Cantatore, Ferrata, Dal Fabbro, Manzù, Guttuso, Titta Rosa e, coraggiosamente, Carlo Bo. Non mancano le sorprese. Il 14 luglio 1965, per esempio, Quasimodo, che notoriamente non era un marito fedele, scrisse contro il divorzio. E le polemiche, fra l'altro contro Roberto Ridolfi, sono di casa. Il figlio Alessandro ricorda il velenoso ritratto che Montale fece di Quasimodo nel 1948: «Capelli di fil di ferro, radi e tinti, labbruzze sottili con baffetti da parrucchiere. È giunto buon ultimo ma sarà presto il primo». Quasimodo rispose con l'epigramma
A un poeta nemico, incluso nella raccolta
Il falso e vero verde (1956), che così conclude: «Spera: che io domani / non giochi col tuo cranio giallo per le piogge». Eppure i due poeti erano stati amicissimi negli anni Trenta, come documentano le montaliane
Lettere a Quasimodo pubblicate da Sebastiano Grasso nel 1981. E alla fine ci fu una strana riconciliazione. Ricorda selettivamente Montale che, di ritorno in treno con Quasimodo dopo che a Roma avevano “festeggiato” gli ottant'anni di Ungaretti (1968), Quasimodo «mi disse: “Abbracciami” ed io lo abbracciai. Ricordo questo gesto abbastanza strano a conclusione d'una giornata trascorsa insieme. Abbastanza ridicolo, anche, quest'abbraccio di riconciliazione. Non ce n'erano i motivi. Non c'erano state baruffe. Ma lui era fatto così». Valli a capire, i poeti!