A "San Zero" va ancora in scena il grande Bluff
È un titolo che racconta e commenta, fa cronaca e tecnica, illustra adeguatamente l'iperbole della chiacchiera pallonara tradotta in nulla: al massimo, se vuoi, emozioni. I sostenitori di Annibale Frossi, «figura del Pantheon nerazzurro», avrebbero difficoltà a parlare, come negli anni Sessanta, di uno 0-0 "pieno
di giuoco"; e mi raccomando il dittongo. Stanco di cerimonie da Circo Massimo popolate di gladiatori della chiacchiera, mi preme sottolineare come ci si avvii sempre più spesso a celebrare il Grande Bluff piuttosto che il Grande Match. La cornice prevale
sul quadro, l'immagine sulla sostanza, il marketing sul prodotto. L'ex coppa dei Campioni vale - come il salame - milioni
di milioni, ma ha in sé i germi della disfatta. L'Inter è un'armata che per un'ora buona è disarmata e non corrisponde minimamente alla presentazione che ne ha fatta l'immaginifico Mourinho; il Manchester, a sua volta, quasi a voler tenere bordone all'avversaria, rinuncia
alla sua strombazzata potenza e ottiene dal baronetto Ferguson non licenza di uccidere (vincere) ma di cavarsela col minimo danno, facendo protagonista del confronto il cursore tattico Park, sgobbone coreano, piuttosto che il pugnace Rooney, a sua volta nel tempo arrotondato e ingentilito. Milioni di milioni sono ancora in ballo - finiranno tutti nelle tasche dei protagonisti il cui modesto sudore ha raggiunto prezzi da elisir di lunga vita - ma è sempre più difficile, per questo calcio Barnum, sfuggire alla crisi economico-finanziaria incombente. The Sun è stato generoso con lo United: la notizia vera, mercoledì mattina, non era solo calcistica, l'analisi di un pareggio risuonato come una romanza stonata sulla scena dell'Aida allestita a San Siro, già Scala del calcio. La notizia vera raccontava l'ennesimo crollo dello sponsor del Manchester; l'impero assicurativo che viene esposto in fondo rosso sul petto di Cristiano Ronaldo e compagni: AIG.Era un marchio di potenza, è diventato un segnale d'allarme.
Da "Diavoli Rossi" a poveri diavoli. Questa è la Champions, frenesia di suoni e luci con poco calcio. L'Inter la vuole dopo decenni d'attesa e la memoria non può fare a meno di stanare i contorni nostalgici di quei tempi in bianco e nero, di quella squadra che schierava il ruvido Burgnich, l'alato Facchetti, l'antipatico Picchi, Jair la freccia, Luisito Suarez il genio e l'abatino Mazzola che nel gol diventava gigante. Un'Inter che correva, picchiava e sudava agli ordini di un Mago Habla Habla maestro di pragmatismo. Era il tempo in cui gli inglesi si facevano rappresentare da Nobby Stiles, uno sgorbio cattivo che sembrava costruito con pezzi dispari come il mostro di Frankenstein: sdentato, giocava privo di dentiera per spaventare gli avversari; miope, quando perdeva negli scontri le lenti a contatto rifilava pedate a quel che trovava; basso e stortignaccolo, sfuggiva agli avversari per imprevedibilità. Scoperto da Matt Busby nel quartiere operaio di Collyhurst diventò bandiera
del Manchester Utd, con cui conquistò la Coppa Campioni del 1968 battendo il Benfica (e demolendo Eusebio), dopo esser già diventato campione del mondo nel '66. Uno da presentare a Balotelli.