Sull'istante non ci ho fatto caso. Solo quando ho chiuso la portiera e ho detto "arrivederci" al fattorino che era salito con me, me ne sono accorta. Caspita, mi sono detta, è la prima volta da oltre due anni che prendo l'ascensore di casa con qualcuno che non sia un familiare. Mi è parso naturale, al piano terreno, dire al ragazzo con una giacca da pony di salire con me. Non ci ho nemmeno pensato. Il ragazzo, che non era italiano, ha fatto una carezza al mio cane, che subito gli ha sventolato, cordiale, la coda. «Ne avevo uno anche io», ha detto il fattorino. Avrà avuto 18 anni. A ripensarci, sembrava un po' sorpreso: perché non ero salita da sola, come ormai rigorosamente si usa, eliminando quei 100 secondi in cui si rischia di guardarsi in faccia, e scambiare due parole. Scendendo, solo in quell'"arrivederci" mi sono accorta dell'evento. Da due anni non dicevo "arrivederci", alla cabina vuota. E sono stata contenta di questa piccolissima cosa, di 100 secondi di umanità ritrovata. Come in una moviola ho risentito le sirene delle ambulanze per Milano, e le code ai supermercati all'alba, e una notte, poi, nella città deserta - solo il rumore dei miei passi, nella Galleria vuota. Almeno questa sembra finita. (Quanto al resto, nessuno lo sa). Ma via almeno questo chador, dalla faccia delle ragazze. Che sorridano, come sorridevano prima.