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Udienza. Il Papa alla Curia: gli abusi di potere sono come la violenza delle armi

Stefania Falasca giovedì 22 dicembre 2022

È eretico chi smette di tradurre il Vangelo. Perché l’eresia, quella vera, «non consiste solo nel predicare un altro Vangelo… ma anche nello smettere di tradurlo nei linguaggi e nei modi attuali». E dall’eresia al «fissismo» il passo è breve perché il «fissismo» altro non è che «la convinzione nascosta di non avere bisogno di nessuna comprensione ulteriore del Vangelo». È quindi «l’errore di voler cristallizzare il messaggio di Gesù in un’unica forma valida sempre», quando invece «la forma deve poter sempre cambiare affinché la sostanza rimanga sempre la stessa».

Così papa Francesco al collegio cardinalizio e alla curia romana per la presentazione degli auguri natalizi di quest’anno. Per poi spiegare che «conservare significa mantenere vivo e non imprigionare il messaggio di Cristo». Insomma quello rivolto alla Curia quest’anno è un discorso che è uno stigma di tutto ciò che è contrario anche alla conversione. Lì dove «tra le mura dell’istituzione, a servizio della Santa Sede, nel cuore stesso del corpo ecclesiale», «i “demoni educati” entrano con educazione, senza che io me ne accorga» dice il Papa e chiede allora che proprio la «conversione, la gratitudine e la pace siano i doni di questo Natale». IL TESTO INTEGRALE DEL DISCORSO

Il primo è la conversione. Tra i benefici di quest’anno «speriamo che ci sia anche la nostra conversione» ha affermato Francesco. Perché la conversione non è mai un discorso concluso e la cosa peggiore che può accadere «è pensare di non averne più bisogno a livello sia personale sia comunitario». Convertirsi «è imparare sempre di più a prendere sul serio il messaggio del Vangelo e tentare di metterlo in pratica nella nostra vita». E in questo senso anche il riferimento al Concilio Vaticano II aiuta ad allargare l’orizzonte di una conversione che porta a comprendere il Vangelo: «Quest’anno – spiega papa Francesco – sono ricorsi i sessant’anni dall’inizio del Concilio Vaticano II. Cos’è stato l’evento del Concilio se non una grande occasione di conversione per tutta la Chiesa? San Giovanni XXIII a questo proposito disse: «Non è il Vangelo che cambia, siamo noi che cominciamo a comprenderlo meglio». La conversione che il Concilio ci ha donato è stato il tentativo di comprendere meglio il Vangelo, di renderlo attuale, vivo e operante in questo momento storico. Così, come più volte era già accaduto nella storia della Chiesa, anche nella nostra epoca come comunità di credenti ci siamo sentiti chiamati a conversione». E questo percorso, tutt’altro che concluso, per il Papa è anche l’attuale riflessione sulla sinodalità della Chiesa che nasce proprio dalla convinzione che «il percorso di comprensione del messaggio di Cristo non ha fine e ci provoca continuamente».


Un altro ostacolo alla conversione è poi anche quello di «confidare troppo in noi stessi, nelle nostre strategie, nei nostri programmi». E alcuni fallimenti alla fine sono una grazia, perché ricordano che non dobbiamo confidare in noi stessi ma solo nel Signore: «Alcune cadute, anche come Chiesa, sono un grande richiamo a rimettere Cristo al centro» e il Papa chiede ai cardinali e alla Curia chiede «una delle virtù più utili da praticare: quella della vigilanza, della quale lo stesso Gesù ne descrive la necessità per noi stessi e per la Chiesa. Ma la grande attenzione che per il Papa si deve prestare in questo momento è dovuta al fatto che «formalmente la nostra vita attuale è in casa, tra le mura dell’istituzione, a servizio della Santa Sede, nel cuore stesso del corpo ecclesiale; e proprio per questo potremmo cadere nella tentazione di pensare di essere al sicuro, di essere migliori, di non doverci più convertire». «Noi – dice Francesco – siamo più in pericolo di tutti gli altri, perché siamo insidiati dal “demonio educato”, che non viene facendo rumore ma portando fiori». Per smascherare questi “demoni educati” per il Papa occorre la pratica quotidiana dell’esame di coscienza. Prende quindi a prestito la citazione letterale di un brano della lettera immaginaria indirizzata a Santa Teresa d’Avila dal beato Albino Luciani nella sua opera Illustrissimi affinché ci si possa rendere conto: «Nel secolo XVII ci fu il famoso caso delle monache di Port Royal. Una delle loro abbadesse, Madre Angelica, era partita bene: aveva “carismaticamente” riformato sé stessa e il monastero, respingendo dalla clausura perfino i genitori. Era una donna piena di doti, nata per governare, ma diventò l’anima della resistenza giansenista, mostrando una chiusura intransigente persino davanti all’autorità ecclesiastica. Di lei e delle sue monache si diceva: “Pure come angeli, superbe come demoni”. Avevano scacciato il demonio, ma era tornato sette volte più forte e, sotto la veste dell’austerità e del rigore, aveva portato rigidità e presunzione di essere migliori degli altri».


E se a volte – continua il Papa – dico cose che possono suonare dure e forti, non è perché non creda nel valore della dolcezza e della tenerezza, ma perché è bene riservare le carezze agli affaticati e agli oppressi, e trovare il coraggio di “affliggere i consolati”, come amava dire il servo di Dio don Tonino Bello, perché a volte la loro consolazione è solo l’inganno del demonio e non un dono dello Spirito».

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​E dopo la gratitudine per quello che si è ricevuto, infine: la pace. «Mai come in questo momento – afferma – sentiamo un grande desiderio di pace. Il Vangelo è sempre Vangelo di pace, e in nome di nessun Dio si può dichiarare “santa” una guerra». E poi aggiunge: «Dove regnano morte, divisione, conflitto, dolore innocente, lì noi possiamo solo riconoscere Gesù crocifisso. La cultura della pace non la si costruisce solo tra i popoli e tra le nazioni. Essa comincia nel cuore di ciascuno di noi. Mentre soffriamo per l’imperversare di guerre e violenze, possiamo e dobbiamo dare il nostro contributo alla pace cercando di estirpare dal nostro cuore ogni radice di odio e risentimento nei confronti dei fratelli e delle sorelle che vivono accanto a noi. Se è vero – dice il Papa – che vogliamo che il clamore della guerra cessi lasciando posto alla pace, allora ognuno inizi da sé stesso». E citando infine San Paolo dice che la benevolenza, la misericordia e il perdono sono la medicina per costruire la pace.


La benevolenza, afferma, è scegliere sempre la modalità del bene «per rapportarci tra di noi». «Non esiste infatti solo la violenza delle armi, esiste la violenza verbale, la violenza psicologica, la violenza dell’abuso di potere, la violenza nascosta delle chiacchere. Davanti al Principe della Pace che viene nel mondo – afferma – deponiamo ogni arma di ogni genere. Ciascuno non approfitti della propria posizione e del proprio ruolo per mortificare l’altro».


La misericordia è accettare che l’altro possa avere anche i suoi limiti. E per il Papa è giusto ammettere che persone e istituzioni, proprio perché sono umane, sono anche limitate: «Una Chiesa pura per i puri è solo la riproposizione dell’eresia catara. Se così non fosse, il Vangelo, e la Bibbia in generale, non ci avrebbero raccontato limiti e difetti di molti che oggi noi riconosciamo come santi». E conclude con il perdono: «Non c’è nulla di più debole di un uomo crocifisso, eppure in quella debolezza si è manifestata l’onnipotenza di Dio. Nel perdono opera sempre l’onnipotenza di Dio».