In Marocco. Il Papa: la via dei battezzati non è il proselitismo, ma la testimonianza
Stefania Falasca, inviata a Rabatdomenica 31 marzo 2019
Le mura colore del deserto e le persiane azzurre della Medina di Rabat fanno da sfondo ai campanili bianchi della Cattedrale di San Pietro ormai caratteristici dello skyline cittadino. Anche il piccolo numero dei cristiani del “Regno maghebrino” sono dentro lo stesso profilo. Nel via vai delle strade affollate da etnie diverse, in quel “dialogo della vita” che mette gomito a gomito cristiani e musulmani nella vita quotidiana. «Le vie della missione non passano attraverso il proselitismo, che porta sempre a un vicolo cieco» dice papa Francesco alzando un sentito applauso sotto le volte decò della cattedrale di Rabat. In più di cinquecento hanno partecipato all’incontro ecumenico del Papa con i sacerdoti e i religiosi nella mattinata della seconda e ultima giornata della sua visita-lampo in Marocco. E tutta dedicata alla presenza cristiana.
I cristiani sono rispettati e apprezzati, qui. La Chiesa vive un tempo di pace, opera in libertà e si esprime anche nel lavoro quotidiano delle quindici scuole cattoliche, dove ottocento docenti musulmani concorrono alla formazione di 12mila studenti, anch’essi appartenenti a famiglie musulmane. Il lavoro congiunto di cristiani e musulmani in campo educativo, sanitario, della promozione sociale, a favore della emancipazione della donna e per l’abolizione del lavoro minorile, rappresenta così una modalità concreta di realizzare il dialogo interreligioso. All’appuntamento nella Cattedrale si ritrova anche il Consiglio ecumenico delle Chiese, con i protestanti (circa diecimila fedeli) e con le piccole comunità degli ortodossi e degli anglicani che hanno fondato il centro ecumenico Al Mowafaqa, presieduto dall’arcivescovo di Rabat e dalla pastora della comunità protestante, nel quale si studia la teologia cristiana e si presta particolare attenzione al dialogo con i musulmani.E proprio sul dialogo, su ciò che significa il dialogo e la missione ha voluto intessere il suo discorso papa Francesco. «La nostra missione di battezzati, di sacerdoti, di consacrati, non è determinata particolarmente dal numero o dalla quantità di spazi che si occupano – ha detto il Papa – ma dalla capacità che si ha di generare e suscitare cambiamento, stupore e compassione; dal modo in cui viviamo come discepoli di Gesù». In altre parole «le vie della missione non passano attraverso il proselitismo, che porta sempre a un vicolo cieco, ma attraverso il nostro modo di essere con Gesù e con gli altri». Il problema perciò per papa Francesco «non è essere poco numerosi, ma essere insignificanti, diventare un sale che non ha più il sapore del Vangelo, o una luce che non illumina più niente». «Penso che la preoccupazione sorge quando noi cristiani siamo assillati dal pensiero di poter essere significativi – ha aggiunto – solo se siamo la massa e se occupiamo tutti gli spazi». Perché «essere cristiano non è aderire a una dottrina, né a un tempio, né a un gruppo etnico. Essere cristiano è un incontro. Siamo cristiani perché siamo stati amati e incontrati e non frutti di proselitismo». Pertanto consapevoli del contesto in cui si è chiamati a vivere il Papa ricorda che la via su cui la Chiesa è chiamata a camminare è il dialogo. Perché quando si dice dialogo nella Chiesa, si dice colloquium salutis, ovvero la fedeltà a Cristo nell’Ecclesiam Suam. Il dialogo infatti è radicato nell’agire di Dio verso l’uomo, come tutta la storia della Salvezza evidenzia. Non si tratta dunque di calcolo o strategia pastorale, ma di assumere il metodo di Dio e di continuarlo nel dipanarsi del tempo. Ciò implica che il dialogo interno alla Chiesa e della Chiesa con il mondo riceve da Dio i suoi contenuti e suoi metodi come scrisse san Paolo VI nell’enciclica Ecclesiam Suam e nella quale proprio il dialogo fiorisce per la prima volta nei documenti del magistero con un’accezione programmatica: «La Chiesa si fa parola, la Chiesa si fa messaggio, la Chiesa si fa colloquio». È un dialogo che, riprende Francesco, diventa preghiera e può realizzarsi concretamente tutti i giorni in nome «della “fratellanza umana” che abbraccia tutti gli uomini, li unisce e li rende uguali e si fa eco del prossimo», come ha ricordato citando il Documento sulla fratellanza umana firmato ad Abu Dhabi.
Nel complesso sportivo principe Moulay Abdellah in diecimila hanno partecipato alla messa. I cattolici sono tutti stranieri e appartengono a cento nazionalità: un gruppo molto consistente è costituito da giovani provenienti dai Paesi subsahariani che vengono in Marocco per studiare. Sono tutti venuti ed affollano gli spalti cantando. Tra i sacerdoti anche frère Jean-Pierre Schumacher, ultimo sopravvissuto dei monaci di Tibhirine, ora nella comunità cistercense in Marocco. Accompagnato dai suoi confratelli, curvo dalle sue novantacinque primavere, prende posto lentamente davanti all’altare che ha per sfondo i contorni delle abitazioni maghrebine. Racconta che è stata una grande emozione per lui incontrare il Papa. «Mi ha baciato la mano e anch’io gliel’ho baciata». Ha pensato ai suoi confratelli di Tibhirine? - gli chiedo: «Sono sicuramente qui oggi presenti».
«Ci minaccia sempre la tentazione di credere nell’odio e nella vendetta come forme legittime per ottenere giustizia in modo rapido ed efficace – afferma il Papa nell’omelia – però l’esperienza ci dice che l’odio, la divisione e la vendetta non fanno che uccidere l’anima della nostra gente, avvelenare la speranza dei nostri figli, distruggere e portare via tutto quello che amiamo».
L’ultima giornata mi Marocco di Francesco si era aperta con un incontro privato tra gli ultimi delle periferie – sempre fortemente simbolico per il dialogo la convivenza pacifica tra cristiani e musulmani – al “Centre rural des service sociaux” di Temara, popolosa cittadina sulla costa atlantica a una ventina di chilometri a sud della capitale Rabat, dove si trova l’antica Kasbah, cuore delle città marocchine. Qui alcune suore spagnole della Congregazione Figlie della Carità di San Vincenzo de’ Paoli curano da anni le ferite del popolo marocchino più emarginato, per questo le chiamano rhibat, che in arabo significa “le sorelle di Dio”. Prima di lasciare Rabat il Papa ha ringraziato per il modo in cui si da «testimonianza del Vangelo della misericordia in queste terre». «Che il Misericordioso e il Clemente, come tanto spesso lo invocano i nostri fratelli e sorelle musulmani, – ha detto allo stadio Moulay Abdellah – vi rafforzi e renda feconde le opere del suo amore».
Perché le religioni possono far crescere la fraternità umana. Che è in sintesi il messaggio di questo breve e denso viaggio nel Maghreb.