Papa a Cuba. Il Papa ai giovani: "Sognate cose grandi"
Voi siete in piedi e io sto seduto. Che vergogna! Ma, sapete perché sto seduto? Perché ho preso appunti di alcune cose che ha detto il nostro compagno e delle quali voglio parlarvi. Una parola si è imposta con forza: sognare. Uno scrittore latinoamericano diceva che noi uomini abbiamo due occhi, uno di carne e uno di vetro. Con l’occhio di carne vediamo ciò che guardiamo. Con l’occhio di vetro vediamo ciò che sogniamo. Bello, vero?
Nell’obiettività della vita deve entrare la capacità di sognare. E un giovane che non è capace di sognare è recintato in sé stesso, è chiuso in sé stesso. Tutti sognano cose che non accadranno mai… Ma sognale, desiderale, cerca orizzonti, apriti, apriti a cose grandi. Non so se a Cuba si usa la parola, ma noi argentini diciamo “no te arrugues”, non tirarti indietro, apriti. Apriti e sogna. Sogna che il mondo con te può essere diverso. Sogna che se darai il meglio di te, aiuterai a far sì che questo mondo sia diverso. Non lo dimenticate, sognate. A volte vi lasciate trasportare e sognate troppo, e la vita vi taglia la strada. Non importa, sognate. E raccontate i vostri sogni. Raccontate, parlate delle cose grandi che desiderate, perché più grande è la capacità di sognare – e la vita ti lascia a metà strada –, più cammino hai percorso. Perciò, prima di tutto sognare.
Hai detto una piccola frase che avevo scritto qui durante l’intervento, ma l’ho sottolineata e ho preso qualche appunto: che sappiamo accogliere e accettare chi la pensa diversamente. In realtà noi, a volte, siamo chiusi. Ci mettiamo nel nostro piccolo mondo: “O è così, o niente”. E sei andato oltre: che non ci chiudiamo nelle conventicole delle ideologie o delle religioni. Che possiamo crescere di fronte agli individualismi. Quando una religione diventa conventicola, perde il meglio che ha, perde la sua realtà di adorare Dio, di credere in Dio. È una conventicola. È una conventicola di parole, di preghiere, di “io sono buono, tu sei cattivo”, di prescrizioni morali. E quando io ho la mia ideologia, il mio modo di pensare e tu hai il tuo, mi chiudo in questa conventicola dell’ideologia.
Cuori aperti, menti aperte. Se la pensi in modo diverso da me, perché non ne parliamo? Perché stiamo sempre a litigare su ciò che ci separa, su ciò in cui siamo diversi? Perché non ci diamo la mano in ciò che abbiamo in comune? Dobbiamo avere il coraggio di parlare di quello che abbiamo in comune. E dopo possiamo parlare di quello che di diverso abbiamo o pensiamo. Ma dico parlare. Non dico litigare. Non dico chiuderci. Non dico “spettegolare”, come hai detto tu. Ma ciò è possibile solo quando ho la capacità di parlare di ciò che ho in comune con l’altro, di ciò per cui siamo capaci di lavorare insieme. A Buenos Aires – in una parrocchia nuova, in una zona molto, molto povera – un gruppo di giovani universitari stava costruendo alcuni locali parrocchiali. E il parroco mi ha detto: “Perché non vieni un sabato e così te li presento?”. Si dedicavano a costruire il sabato e la domenica. Erano ragazzi e ragazze dell’università. Sono andato e li ho visti, e me li hanno presentati: “Questo è l’architetto, è ebreo, questo è comunista, questo è cattolico praticante, questo è…”. Erano tutti diversi, ma tutti stavano lavorando insieme per il bene comune. Questa si chiama amicizia sociale, cercare il bene comune. L’inimicizia sociale distrugge. E una famiglia si distrugge per l’inimicizia. Un paese si distrugge per l’inimicizia. Il mondo si distrugge per l’inimicizia. E l’inimicizia più grande è la guerra. Oggigiorno vediamo che il mondo si sta distruggendo per la guerra. Perché sono incapaci di sedersi e parlare: “Bene, negoziamo. Che cosa possiamo fare in comune? In quali cose cederemo? Ma non uccidiamo altra gente”. Quando c’è divisione, c’è morte. C’è morte nell’anima, perché stiamo uccidendo la capacità di unire. Stiamo uccidendo l’amicizia sociale. Questo vi chiedo oggi: siate capaci di creare l’amicizia sociale.
Poi c’è un’altra parola che hai detto. La parola speranza. I giovani sono la speranza di un popolo. Questo lo sentiamo dire dappertutto. Ma che cos’è la speranza? È essere ottimisti? No. L’ottimismo è uno stato d’animo. Domani ti alzi col mal di fegato e non sei ottimista, vedi tutto nero. La speranza è qualcosa di più. La speranza è sofferta. La speranza sa soffrire per portare avanti un progetto, sa sacrificarsi. Tu sei capace di sacrificarti per un futuro o vuoi solo vivere il presente e che quelli che verranno si arrangino? La speranza è feconda. La speranza dà vita. Tu sei capace di dare vita, o diventerai un ragazzo o una ragazza spiritualmente sterile, incapace di creare vita per gli altri, incapace di creare amicizia sociale, incapace di creare patria, incapace di creare grandezza? La speranza è feconda. La speranza si dà nel lavoro. Voglio ricordare qui un problema molto grave che si sta vivendo in Europa, cioè il gran numero di giovani che non ha lavoro. Ci sono Paesi in cui la percentuale dei giovani dai 25 anni in giù disoccupati è del 40%. Penso a un Paese. In un altro paese del 47 %, e in un altro ancora del 50%. È chiaro che un popolo che non si preoccupa di dare lavoro ai giovani, un popolo – e quando dico popolo non dico governi –, un intero popolo che non si preoccupa della gente, che questi giovani lavorino, questo popolo non ha futuro.
I giovani entrano a far parte della cultura dello scarto. E tutti sappiamo che oggi, in questo impero del dio denaro, si scartano le cose e si scartano le persone. Si scartano i bambini perché non li si vuole o perché li si uccide prima che nascano. Si scartano gli anziani – sto parlando del mondo, in generale –, si scartano gli anziani perché non producono più. In alcuni Paesi, c’è la legge sull’eutanasia, ma in tanti altri c’è un’eutanasia nascosta, occulta. Si scartano i giovani perché non si dà loro lavoro. Allora, che cosa resta a un giovane senza lavoro? Se un Paese non inventa, se un popolo non inventa possibilità di lavoro per i suoi giovani, a quel giovane restano solo o le dipendenze o il suicidio, o andare in giro a cercare eserciti di distruzione per creare guerre. Questa cultura dello scarto sta facendo del male a tutti noi, ci toglie la speranza. Ed è quello che hai chiesto per i giovani: vogliamo speranza. Speranza che è sofferta, è laboriosa, è feconda. Ci dà lavoro e ci salva dalla cultura dello scarto. E questa speranza convoca, convoca tutti, perché un popolo che sa autoconvocarsi per guardare al futuro e costruire l’amicizia sociale – come ho già detto, anche se si pensa in modi diversi –, questo popolo ha speranza.
E se io incontro un giovane senza speranza – l’ho già detto una volta – quel giovane è un “pensionato”. Ci sono giovani che sembrano andare in pensione a 22 anni. Sono giovani con una tristezza esistenziale. Sono giovani che hanno puntato la loro vita sul disfattismo di base. Sono giovani che si lamentano. Sono giovani che fuggono dalla vita. Il cammino della speranza non è facile e non si può percorrere da soli. C’è un proverbio africano che dice: “Se vuoi andare in fretta, vai solo, ma se vuoi arrivare lontano, vai accompagnato”. E io voglio che voi, giovani cubani, anche se la pensate in modo diverso, anche se avete punti di vista diversi, andiate in compagnia, insieme, cercando la speranza, cercando il futuro e la nobiltà della patria.
Abbiamo iniziato con la parola “sognare”, e voglio concludere con un’altra espressione che mi hai detto e che io uso spesso: la cultura dell’incontro. Per favore, non dividiamoci tra noi. Andiamo insieme, uniti, anche se la pensiamo diversamente, anche se sentiamo diversamente. Ma c’è qualcosa che è superiore a noi, è la grandezza del nostro popolo, è la grandezza della nostra patria, ed è a questa bellezza, a questa dolce speranza della patria, che dobbiamo arrivare. Grazie.
Bene, vi saluto augurandovi ogni bene, augurandovi… tutto quello che vi ho detto. Ve lo auguro. Pregherò per voi. E vi chiedo di pregare per me. E se qualcuno di voi non è credente – e non può pregare perché non è credente – che almeno mi auguri cose buone. Che Dio vi benedica, vi faccia procedere lungo questo cammino di speranza verso la cultura dell’incontro, evitando quelle conventicole di cui ha parlato il nostro compagno. E che Dio vi benedica tutti.
Cari amici,
Provo una grande gioia nel poter stare con voi proprio qui in questo Centro Culturale, così significativo per la storia di Cuba. Rendo grazie a Dio per avermi concesso l’opportunità di avere quest’incontro con tanti giovani che, col proprio lavoro, studio e preparazione, stanno sognando e anche già realizzando il domani di Cuba.
Ringrazio Leonardo per le sue parole di saluto, e specialmente perché, pur potendo parlare di molte altre cose, certamente importanti e concrete, come le difficoltà, le paure, i dubbi – tanto reali e umani -, ci ha parlato di speranza, di quei sogni e aspirazioni che sono fortemente impressi nel cuore dei giovani cubani, al di là delle loro differenze di formazione, di cultura, di fede e di idee. Grazie, Leonardo, perché io stesso, quando guardo voi, la prima cosa che mi viene nella mente e nel cuore è la parola speranza. Non posso concepire un giovane che non si muova, che rimanga bloccato, che non abbia sogni né ideali, che non aspiri a qualcosa di più.
Ma qual è la speranza di un giovane cubano in quest’epoca della storia? Né più né meno che quella di qualsiasi altro giovane di qualsiasi parte del mondo. Perché la speranza ci parla di una realtà che è radicata nel profondo dell’essere umano, indipendentemente dalle circostanze concrete e dai condizionamenti storici in cui vive. Ci parla di una sete, di un’aspirazione, di un anelito di pienezza, di vita realizzata, di un misurarsi con ciò che è grande, con ciò che riempie il cuore ed eleva lo spirito verso cose grandi, come la verità, la bontà e la bellezza, la giustizia e l’amore. Senza dubbio, questo comporta un rischio. Chiede di essere disposti a non lasciarsi sedurre da ciò che è passeggero e caduco, da false promesse di felicità vuota, di piacere immediato ed egoista, di una vita mediocre, centrata su se stessi, e che lascia nel cuore solo tanta tristezza e amarezza. No, la speranza è audace, sa guardare oltre la comodità personale, le piccole sicurezze e compensazioni che restringono l’orizzonte, per aprirsi a grandi ideali che rendono la vita più bella e dignitosa. Io chiederei a ciascuno di voi: Cos’è che muove la tua vita? Cosa c’è nel tuo cuore, in cui abitano le tue aspirazioni? Sei disposto a rischiare sempre per qualcosa di più grande?
Qualcuno di voi potrebbe dirmi: “Sì, Padre, l’attrazione per questi ideali è grande. Sento il loro richiamo, la loro bellezza, lo splendore della loro luce nella mia anima. Ma, nello stesso tempo, la realtà della mia debolezza e delle mie poche forze è molto pesante perché io riesca a decidermi a percorrere il cammino della speranza. La meta è molto alta e le mie forze sono poche. Meglio accontentarsi di poco, di cose forse meno grandi però più realiste, più alla portata delle mie possibilità”. Comprendo questa reazione, è normale sentire il peso di quanto è arduo e difficile, tuttavia, attenti a non cadere nella tentazione della delusione, che paralizza l’intelligenza e la volontà, e a non lasciarci prendere dalla rassegnazione, che è un pessimismo radicale di fronte ad ogni possibilità di raggiungere i nostri sogni. Questi atteggiamenti alla fine sfociano o in una fuga dalla realtà verso paradisi artificiali o in un trincerarsi nell’egoismo personale, in una specie di cinismo, che non vuole ascoltare il grido di giustizia, di verità e di umanità che si leva intorno a noi e dentro di noi.
Ma che fare? Come trovare vie di speranza nella situazione in cui viviamo? Come fare perché questi sogni di pienezza, di vita autentica, di giustizia e verità, siano una realtà nella nostra vita personale, nel nostro paese e nel mondo? Penso che ci sono tre idee che possono essere utili per tenere viva la speranza.
La speranza, un cammino fatto di memoria e discernimento. La speranza è la virtù di colui che è in cammino e si dirige da qualche parte. Non è dunque un semplice camminare per il gusto di camminare, bensì ha un fine, una meta, che è quella che dà senso e illumina la strada. Nello stesso tempo, la speranza si nutre della memoria, comprende con il suo sguardo non solo il futuro ma anche il passato e il presente. Per camminare nella vita, oltre a sapere dove vogliamo andare, è importante sapere anche chi siamo e da dove veniamo. Una persona o un popolo che non ha memoria e cancella il suo passato, corre il rischio di perdere la sua identità e rovinare il suo futuro. È necessaria pertanto la memoria di ciò che siamo, di ciò che costituisce il nostro patrimonio spirituale e morale. Credo che questa sia l’esperienza e l’insegnamento di quel grande cubano che è stato Padre Félix Varela. Ed è necessario anche il discernimento, perché è essenziale aprirsi alla realtà e saperla leggere senza timori e pregiudizi. Non servono le letture parziali o ideologiche, che deformano la realtà affinché entri nei nostri piccoli schemi prestabiliti, provocando sempre delusione e disperazione. Discernimento e memoria, perché il discernimento non è cieco, ma si realizza sulla base di solidi criteri etici, morali, che aiutano a discernere ciò che è buono e giusto.
La speranza, un cammino accompagnato. Dice un proverbio africano: «Se vuoi andare in fretta, vai da solo; se vuoi andare lontano, vai in compagnia». L’isolamento o la chiusura in sé stessi non generano mai speranza, invece la vicinanza e l’incontro con l’altro sì. Da soli non arriviamo da nessuna parte. E con la esclusione non si costruisce un futuro per nessuno, neanche per sé stessi. Un cammino di speranza esige una cultura dell’incontro, del dialogo, che superi i contrasti e il confronto sterile. Perciò è fondamentale considerare le differenze nel modo di pensare non come un rischio, ma come una ricchezza e un fattore di crescita. Il mondo ha bisogno di questa cultura dell’incontro, ha bisogno di giovani che vogliano conoscersi, che vogliano amarsi, che vogliano camminare uniti e costruire un paese come lo sognava José Martí: «Con tutti e per il bene di tutti».
La speranza, un cammino solidale. La cultura dell’incontro deve condurre naturalmente a una cultura della solidarietà. Apprezzo molto quanto ha detto Leonardo all’inizio quando ha parlato della solidarietà come forza che aiuta a superare ogni ostacolo. Effettivamente, se non c’è solidarietà non c’è futuro per nessun Paese. In cima a qualsiasi altra considerazione o interesse, ci dev’essere la preoccupazione concreta e reale per l’essere umano, che può essere mio amico, mio compagno, o anche qualcuno che la pensa in modo diversa, che ha le sue idee, ma che è un essere umano e un cubano tanto quanto me. Non basta la semplice tolleranza, occorre andare oltre e passare da un atteggiamento diffidente e difensivo a uno di accoglienza, di collaborazione, di servizio concreto e di aiuto effettivo. Non abbiate paura della solidarietà, del servizio, del dare la mano all’altro in modo che nessuno sia lasciato fuori dalla strada.
Questa strada della vita è illuminata da una speranza più alta: quella che ci viene dalla fede in Cristo. Egli si è fatto nostro compagno di viaggio, e non solo ci incoraggia ma ci accompagna, sta al nostro fianco e ci tende la sua mano di amico. Egli, il Figlio di Dio, ha voluto farsi uno come noi, per percorrere anche la nostra strada. La fede nella sua presenza, il suo amore e la sua amicizia, accendono e illuminano tutte le nostre speranze e illusioni. Con Lui, impariamo a discernere la realtà, a vivere l’incontro, a servire gli altri e a camminare nella solidarietà.
Cari giovani cubani, se Dio stesso è entrato nella nostra storia e si è fatto uomo in Gesù, si è caricato sulle spalle la nostra debolezza e il nostro peccato, non abbiate paura della speranza, non abbiate paura del futuro, perché Dio scommette su di voi, crede in voi, spera in voi.
Cari amici, grazie per questo incontro. La speranza in Cristo vostro amico vi guidi sempre nella vostra vita. E, per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Il Signore vi benedica!