Cari fratelli e sorelle,
Saluto molto cordialmente Voi che partecipate a questo pellegrinaggio-incontro, organizzato
dalla Pontificia Commissione per l’America Latina, sotto la protezione di Nostra Signora di
Guadalupe. Oltre a trasmettervi il mio affetto, la mia vicinanza ed il mio desiderio di essere con
Voi, voglio condividere brevemente alcune riflessioni, come contributo a questi giorni di
incontro.
Aparecida propone di mettere la Chiesa in stato permanente di missione, di realizzare sì atti
di indole missionaria, ma nel contesto più ampio di una missionarietà generalizzata: che tutta
l’attività abituale delle Chiese particolari abbia un carattere missionario. E questo nella certezza
che l’uscita missionaria, più che un’attività tra altre è un paradigma, cioè è il paradigma di tutta
l’azione pastorale. L’intimità della Chiesa con Gesù è un’intimità itinerante, suppone un uscire
da se stessi, un camminare e seminare sempre di nuovo, sempre più in là. “Andiamo altrove a
predicare ai villaggi vicini, perché per questo sono venuto”, diceva il Signore. È vitale per la
Chiesa non chiudersi, non sentirsi già soddisfatta e sicura con quel che ha raggiunto. Se succede
questo, la Chiesa si ammala, si ammala di abbondanza immaginaria, di abbondanza superflua,
in certo modo “fa indigestione” e si debilita. Bisogna uscire dalla propria comunità e avere
l’audacia di arrivare alle periferie esistenziali che hanno bisogno di sentire la vicinanza di Dio.
Lui non abbandona nessuno e mostra sempre la Sua tenerezza e la Sua misericordia inesauribile,
quindi, questo è ciò che bisogna portare a tutta la gente.
Un secondo punto: l’obiettivo di tutta l’attività pastorale è sempre orientato dall’impulso
missionario di arrivare a tutti, senza escludere nessuno e tenendo in gran considerazione le
circostanze di ognuno. Si deve arrivare a tutti e si condividerà la gioia di essersi incontrati con
Cristo. Non si tratta di andare come chi impone un nuovo obbligo, come chi si limita al
rimprovero o al lamento dinanzi a quel che si considera imperfetto o insufficiente. Il compito
evangelizzatore esige molta pazienza, molta pazienza, cura il grano e non perde la pace per la
presenza della zizzania. E sa anche presentare il messaggio cristiano in maniera serena e
graduale, con il profumo del Vangelo, come faceva il Signore. Sa privilegiare, in primo luogo,
l’essenziale e più necessario, cioè la bellezza dell’amore di Dio che ci parla in Cristo morto e
risorto. Dall’altra parte, deve sforzarsi di essere creativo nei suoi metodi, non possiamo rimanere
rinchiusi nel luogo comune del “si è fatto sempre così”.
Terzo: chi conduce la pastorale nella Chiesa particolare è il Vescovo e lo fa come il pastore
che conosce per nome le sue pecore, le guida con vicinanza, con tenerezza, con pazienza,
manifestando effettivamente la maternità della Chiesa e la misericordia di Dio. L’atteggiamento
del vero pastore non è quello del principe o del mero funzionario attento principalmente alla
disciplina, alle regole, ai meccanismi organizzativi. Questo porta sempre ad una pastorale
distante dalla gente, incapace di favorire ed ottenere l’incontro con Cristo e l’incontro con i
fratelli. Il popolo di Dio a lui affidato ha bisogno che il Vescovo vegli per lui, prendendosi cura
soprattutto di quello che lo mantiene unito e promuove la speranza nei cuori. Ha bisogno che il
Vescovo sappia discernere, senza spegnerlo, il soffio dello Spirito Santo che viene da dove
vuole, per il bene della Chiesa e la sua missione nel mondo.
Quarto: questi atteggiamenti del Vescovo, devono anche essere partecipati molto
profondamente dagli altri agenti di pastorale, soprattutto dai presbiteri. La tentazione del
clericalismo, che tanto danno fa alla Chiesa in America Latina, è un ostacolo per lo sviluppo
della maturità e della responsabilità cristiana di buona parte del laicato. Il clericalismo implica
un atteggiamento autoreferenziale, un atteggiamento di gruppo, che impoverisce la proiezione
verso l’incontro del Signore, che ci fa discepoli, e verso gli uomini che aspettano l’annuncio.
Perciò, credo che sia importante, urgente, formare ministri capaci di prossimità, di incontro, che
sappiano infiammare il cuore della gente, camminare con loro, entrare in dialogo con le sue
speranze ed i suoi timori. Questo lavoro, i Vescovi non lo possono delegare. Lo devono assumere
come qualcosa di fondamentale per la vita della Chiesa, senza risparmiare sforzi, attenzioni e
accompagnamento. Inoltre, una formazione di qualità richiede strutture solide e durature che
preparino ad affrontare le sfide dei nostri giorni e a portare la luce del Vangelo alle diverse
situazioni che i presbiteri, i consacrati, le consacrate ed i laici incontreranno nella loro azione
pastorale.
La cultura di oggi esige una formazione seria, bene organizzata. Ed io mi chiedo se abbiamo
la capacità autocritica sufficiente per valutare i risultati di seminari molto piccoli, con carenza
di personale formativo sufficiente.
Voglio dedicare alcune parole alla vita consacrata. La vita consacrata nella Chiesa è un
fermento. Un fermento di quello che vuole il Signore, un fermento che fa crescere la Chiesa
verso l’ultima manifestazione di Cristo Gesù. Chiedo ai consacrati ed alle consacrate di essere
fedeli al carisma ricevuto, che nel loro servizio alla Santa Madre Chiesa gerarchica, non lascino
svanire quella grazia che lo Spirito Santo diede ai loro fondatori e che devono trasmettere in tutta
la sua integrità. E questa è la grande profezia dei consacrati, quel carisma dato per il bene della
Chiesa. Andate avanti con questa fedeltà creativa al carisma ricevuto per servire la Chiesa.
Cari fratelli e sorelle, molte grazie per ciò che fate per questa missione continentale.
Ricordate che avete ricevuto il Battesimo, che vi ha trasformato in discepoli del Signore. Ma
ogni discepolo è, a sua volta, missionario. Benedetto XVI diceva che sono le due facce della
stessa medaglia. Vi prego, come padre e fratello in Gesù Cristo, che vi facciate carico della fede
che avete ricevuto nel Battesimo. E, come fecero la mamma e la nonna di Timoteo, trasmettiate
la fede ai vostri figli e nipoti, e non solo a loro. Questo tesoro della fede non è dato per uso
personale. È per donarlo, per trasmetterlo, e così crescerà. Fate conoscere il nome di Gesù. E se
fate questo, non vi meravigliate che in pieno inverno fioriscano le rose di Castilla. Perché sapete,
sia Gesù sia noi abbiamo la stessa Madre!