San Pietro. Celebrazione della Passione del Signore. La scelta di Dio
Come di consueto nel pomeriggio del Venerdì Santo, papa Francesco ha presieduto nella Basilica Vaticana la celebrazione della Passione del Signore. Un solenne rito in cui viene letto il Vangelo di Giovanni (18,1-19, 42) che si conclude con la morte di Gesù e la sua deposizione nella tomba. Nel corso di questa liturgia l'omelia è pronunciata dal predicatore della Casa Pontificia, padre Raniero Cantalamessa.
Il video della celebrazione:
L'omelia di padre Raniero Cantalamessa
"Oggi vogliamo contemplare il Crocifisso proprio in questa veste: come il prototipo e il rappresentante di tutti i reietti, i diseredati e gli ‘scartati’ della terra, quelli davanti ai quali si volta la faccia da una altra parte per non vedere”. È l’inizio dell’omelia, riportata dall'agenzia Sir, tenuta da padre Raniero Cantalamessa, predicatore della Casa Pontificia, durante la celebrazione della Passione del Signore, presieduta questo pomeriggio dal Papa nella basilica di San Pietro. “Gesù non ha cominciato ora, nella passione, ad esserlo. In tutta la sua vita egli ha fatto parte di loro”, ha fatto notare il religioso, fin dalla nascita in una stalla e nella presentazione al tempio, “un vero e proprio certificato di povertà nell’Israele di allora”.
“Durante la sua vita pubblica, non ha dove posare il capo: è un senzatetto”, il ritratto di Cantalamessa, che ha sottolineato come durante l’interrogatorio di Pilato Gesù “è il prototipo delle persone ammanettate, sole, in balia di soldati e sgherri che sfogano sui poveri malcapitati la rabbia e la crudeltà che hanno accumulato nella vita. Torturato! ‘Ecce homo!’, Ecco l’uomo!, esclama Pilato, nel presentarlo di lì a poco al popolo. Parola che, dopo Cristo, può essere detta della schiera senza fine di uomini e donne avviliti, ridotti a oggetti, privati di ogni dignità umana”.
“Se questo è un uomo”: lo scrittore Primo Levi ha intitolato così il racconto della sua vita nel campo di sterminio di Auschwitz, ha proseguito Cantalamessa, secondo il quale “sulla croce, Gesú di Nazareth diventa l’emblema di tutta questa umanità ‘umiliata e offesa’. Verrebbe da esclamare: ‘Reietti, rifiutati, paria di tutta la terra: l’uomo più grande di tutta la storia è stato uno di voi! A qualunque popolo, razza o religione apparteniate, voi avete il diritto di reclamarlo come vostro”.
“Nobody knows the trouble I have seen. Nobody knows, but Jesus”: Nessuno sa il dolore che ho provato; nessuno, tranne Gesù”. A citare lo spiritual cantato dagli schiavi afroamericani del Sud è stato padre Raniero Cantalamessa, predicatore della Casa Pontificia, nell’omelia della celebrazione della Passione del Signore, presieduta questo pomeriggio dal Papa nella basilica di San Pietro. “Uno scrittore e teologo afro-americano che Martin Luther King considerava suo maestro e ispiratore della lotta non violenta per i diritti civili, ha scritto un libro intitolato ‘Jesus and the Disinherited’, Gesú e i diseredati”, ha ricordato il religioso citando Howard Thurnman: “In esso, egli fa vedere che cosa la figura di Gesù aveva rappresentato per gli schiavi del Sud, di cui lui stesso era un diretto discendente. Nella privazione di ogni diritto e nella abiezione più totale, le parole del Vangelo che il ministro di culto negro ripeteva, nell’unica riunione ad essi consentita, ridavano agli schiavi il senso della loro dignità di figli di Dio”.
“In questo clima sono nati la maggioranza dei canti negro-spiritual che ancora oggi commuovono il mondo”, ha commentato Cantalamessa: “Al momento dell’asta pubblica essi avevano vissuto lo strazio di vedere le mogli separate spesso dai mariti e i genitori dai figli, venduti a padroni diversi. È facile intuire con che spirito essi cantavano sotto il sole o nel chiuso delle loro capanne”.
Il significato più profondo della passione e morte di Cristo “non è quello sociale, ma quello spirituale”. Ne è convinto padre Raniero Cantalamessa, predicatore della Casa Pontificia, che nell’omelia della celebrazione della Passione del Signore, presieduta dal Papa questo pomeriggio nella basilica di San Pietro, ha fatto notare che “quella morte ha redento il mondo dal peccato, ha portato l’amore di Dio nel punto più lontano e più buio in cui l’umanità si era cacciata nella sua fuga da lui, cioè nella morte. Non è il senso più importante della croce, ma è quello che tutti, credenti e non credenti, possono riconoscere ed accogliere”.
“Se per il fatto della sua incarnazione il Figlio di Dio si è fatto uomo e si è unito all’umanità intera, per il modo in cui è avvenuta la sua incarnazione egli si è fatto uno dei poveri e dei reietti, ha sposato la loro causa”, ha spiegato il religioso: “Si è incaricato di assicurarcelo lui stesso, quando ha solennemente affermato: ‘Quello che avete fatto all’ affamato, all’ignudo, al carcerato, all’esiliato, lo avete fatto a me; quello che non avete fatto ad essi non lo avete fatto a me’”.
“Ma non possiamo fermarci qui”, l’invito del predicatore: “Se Gesù non avesse che questo da dire ai diseredati del mondo, non sarebbe che uno in più tra di loro, un esempio di dignità nella sventura e nulla più. Anzi, sarebbe una prova ulteriore a carico di Dio che permette tutto questo”. Il Vangelo, infatti, “non si ferma qui; dice anche un’altra cosa, dice che il crocifisso è risorto! In lui è avvenuto un rovesciamento totale delle parti: il vinto è diventato il vincitore, il giudicato è diventato il giudice, ‘la pietra scartata dai costruttori è diventata testata d’angolo’”.
“L’ultima parola non è stata, e non sarà mai, dell’ingiustizia e dell’oppressione”, ha detto Cantalamessa: “Gesú non ha ridato soltanto una dignità ai diseredati del mondo; ha dato loro una speranza!”. Nei primi tre secoli della Chiesa, ha fatto notare il predicatore della Casa Pontificia, la celebrazione della Pasqua non era distribuita come ora in diversi giorni: Venerdì Santo, Sabato Santo e Domenica di Pasqua: “Tutto era concentrato in un solo giorno. Nella veglia pasquale si commemorava sia la morte che la risurrezione. Più precisamente: non si commemorava né la morte né la risurrezione come fatti distinti e separati; si commemorava piuttosto il passaggio di Cristo dall’una all’altra, dalla morte alla vita”.
La parola “pasqua”, infatti, significa passaggio: “passaggio del popolo ebraico dalla schiavitù alla libertà, passaggio di Cristo da questo mondo al Padre e passaggio dei credenti in lui dal peccato alla grazia”. “È la festa del capovolgimento operato da Dio e realizzato in Cristo; è l’inizio e la promessa dell’unico rovesciamento totalmente giusto e irreversibile nelle sorti dell’umanità”, ha commentato Cantalamessa: “Poveri, esclusi, appartenenti alle diverse forme di schiavitù ancora in atto nella nostra società: Pasqua è la vostra festa!”.
“La croce contiene un messaggio anche per coloro che stanno sull’altra sponda: per i potenti, i forti, quelli che si sentono tranquilli nel loro ruolo di ‘vincenti'”. Lo ha spiegato padre Raniero Cantalamessa, predicatore della Casa Pontificia, nell’omelia della celebrazione della passione del Signore, presieduta questo pomeriggio dal Papa nella basilica di San Pietro. “Ed è un messaggio, come sempre, d’amore e di salvezza, non di odio o di vendetta”, ha proseguito: “Ricorda loro che alla fine essi sono legati allo stesso destino di tutti; che deboli e potenti, inermi e tiranni, tutti sono sottoposti alla stessa legge e agli stessi limiti umani”.
“La morte, come la spada di Damocle, pende sul capo di ognuno, appesa a un crine di cavallo”, ha ricordato il religioso: “Mette in guardia dal male peggiore per l’uomo che è l’illusione dell’onnipotenza. Non occorre andare troppo indietro nel tempo, basta ripensare alla storia recente per renderci conto di quanto questo pericolo sia frequente e porti persone e popoli alla catastrofe”.
“La Chiesa ha ricevuto il mandato del suo fondatore di stare dalla parte dei poveri e dei deboli, di essere la voce di chi non ha voce e, grazie a Dio, è quello che fa, soprattutto nel suo pastore supremo”, ha affermato il religioso, secondo il quale “il secondo compito storico che le religioni devono, insieme, assumersi oggi, oltre quello di promuovere la pace, è di non rimanere in silenzio dinanzi allo spettacolo che è sotto gli occhi di tutti. Pochi privilegiati posseggono beni che non potrebbero consumare, vivessero anche per secoli e secoli, e masse sterminate di poveri che non hanno un pezzo di pane e un sorso d’acqua da dare ai propri figli”. “Nessuna religione può rimanere indifferente, perché il Dio di tutte le religioni non è indifferente dinanzi a tutto ciò”, l’appello finale.