Opinioni

Voto popolare e doveri istituzionali. Dalla parte dei governati

Marco Olivetti sabato 5 maggio 2018

L’ipotesi che l’attuale crisi potesse essere senza soluzione, e che quindi non esistesse altra via che un ritorno quasi immediato alle urne, è stata formulata sin dall'inizio. Anzi essa circolava già prima del voto. Dunque il ritorno in primo piano delle elezioni anticipate – dopo il fallimento sia dell’ipotesi di un accordo M5s-Lega, sia di una coalizione tra M5s e Pd – non dovrebbe stupirci più di tanto.
Eppure l’ipotesi di un ritorno immediato al voto non dovrebbe essere presa troppo alla leggera e, comunque, non può essere ritenuta priva di alternative. Fra l’altro, essa ha un significato diverso a seconda che sia osservata ex parte principi o ex parte populi, come è necessario fare rispetto a qualsiasi meccanismo istituzionale.

In effetti, dal punto di vista del sistema di governo (dunque ex parte principi), le elezioni anticipate svolgono una funzione importantissima nei regimi parlamentari, come quello italiano: esse servono sia a certificare che un Parlamento è incapace di produrre una working majority (una maggioranza in grado di lavorare), sia a permettere a un esecutivo sfiduciato di fare appello al corpo elettorale. Tuttavia, le crisi di inizio legislatura sono diverse dalle altre: in casi come quello italiano attuale, il Governo non riuscirebbe neppure a nascere e quindi l’inceppamento delle dinamiche della democrazia rappresentativa sarebbe più grave. Ne segue che il ricorso allo scioglimento va guardato con estrema cautela. Quando le nuove elezioni sono molto vicine a quelle precedenti, vi è infatti il rischio che un secondo voto produca un risultato eguale o molto simile al primo, sicché occorre chiedersi se in questo caso non gravi sulle forze politiche un dovere rinforzato di leale collaborazione, un compito, dunque, di ricercare soluzioni, anche imperfette, per consentire alle istituzioni rappresentative di funzionare. E fra queste soluzioni non possono essere a priori esclusi esecutivi che nascano su iniziativa del Presidente della Repubblica, come è in vario modo accaduto in passato, da Pella a Leone, da Fanfani a Goria, da Amato a Dini, fino a Monti e Letta. Il ritorno immediato alle urne sarebbe invece una novità assoluta nella storia repubblicana, al punto che l’invocazione dogmatica del voto anticipato senza che sia formato un nuovo Governo potrebbe essere ritenuta quasi un tradimento, da parte delle forze politiche, della funzione che ai sensi dell’art. 49 della Costituzione loro spetta: quella di concorrere (dunque senza esclusivismi) con metodo democratico (del quale fa necessariamente parte la disponibilità a compromessi) a determinare la politica nazionale.

Ma questa constatazione acquisisce un rilievo ancor maggiore se allo scioglimento delle Camere si guarda dalla prospettiva dei governati, dunque ex parte populi: se, cioè, ci si interroga sulle cosiddette early elections, che constatano la morte in culla della legislatura, alla luce del diritto fondamentale di voto dei cittadini, che è alla base dell’organizzazione democratica della Repubblica. Il voto non è una scommessa, ma l’esercizio del primo fra i diritti e i doveri di cittadinanza, con cui il cittadino partecipa alla formazione della volontà dello Stato. Si tratta di un atto che deve essere libero, vale a dire di una scelta fra opzioni diverse, non di uno strumento della volontà di potenza di questo o di quel partito. Per questo, davanti agli elettori si può tornare prima della scadenza naturale della legislatura – ad esempio, se occorre arbitrare un conflitto fra Parlamento e Governo o fra forze politiche organizzate – solo se esistono questioni nuove sulle quali essi non si erano pronunciati nel voto precedente. Invece, un secondo voto appena tre mesi dopo il primo è quasi un atto di violenza verso l’elettorato e presuppone la rinuncia a gestire i risultati del voto appena espresso. E l’idea che eventuali elezioni anticipate siano una sorta di secondo turno rispetto alle elezioni del 4 marzo è per di più contraddittoria con la posizione di chi ha sostenuto che l’Italicum – che prevedeva proprio quel meccanismo – era un «attentato alla democrazia». Non per nulla i casi concreti di doppio voto a distanza ravvicinata sono piuttosto infrequenti (Regno Unito nel 1910 e nel 1974; Canada 1925-26, Spagna 2015-16 e poco altro) e anche in quei casi l’intervallo fra i due voti non è stato inferiore a un semestre e intanto si è formato un nuovo Governo.

Il ritorno alle urne, in sostanza, va inteso con forte senso di responsabilità. Prima di farvi ricorso vanno ricercate con estrema pazienza tutte le soluzioni possibili in base al difficile voto del 4 marzo. La saggezza del presidente Mattarella ha sinora spinto – con molta delicatezza – in questa direzione. Di fronte a essa, le forze politiche – e in particolare i «vincitori insufficienti» delle ultime elezioni – devono dimostrare di avere a cuore l’interesse generale e non solo la loro volontà di potenza.