I segnali da voto e non voto comunale. Vittorie vere e stanche
In pochi e con poco calore, gli italiani che hanno partecipato alla tornata amministrativa autunnale hanno restituito un verdetto chiaro e, per una volta, non equivocabile: il centrosinistra vince e il destracentro perde. I ballottaggi amplificano l’esito del primo turno attraverso il risultato dei capoluoghi di provincia e in special modo attraverso il risultato di Roma. Dopo la controversa 'era Raggi', la Capitale sembrava dover finire – stando ai sondaggi di una manciata di settimane fa – a Matteo Salvini e, soprattutto, a Giorgia Meloni, principale artefice della candidatura del tribuno radiofonico Enrico Michetti. E invece Roma va nelle mani del mite Roberto Gualtieri, che ha dovuto 'semplicemente' raccogliere i frutti dell’harakiri degli avversari tra incertezze su voti e piazze 'nere' e ambiguità sul Green pass.
Chi sa se i leader di Lega e Fratelli d’Italia dedicheranno una parte delle loro analisi – sinora tendenti all’autoassoluzione – allo strano effetto che fa, alla maggioranza silenziosa degli italiani, vederli aizzarsi ogni giorno contro gli strumenti sanitari che stanno restituendo libertà al Paese e al contempo non riuscire a dire la parola 'fascismo' senza smorfie di fastidio o di ironia (anche se Meloni, alla fine su questo è stata netta e chiara). In particolare per Salvini, dopo i ballottaggi il tempo delle scelte è davvero a un passo: altre esitazioni - ad esempio sulla legge di bilancio - potrebbero costargli caro.
Allo stesso tempo, è vero che l’enorme tasso di astensionismo non può consentire a nessuno di provare euforia oltre i limiti del buon senso. Evidentemente, i tre fattori principali di questa fase politica – il governo pragmatico di Mario Draghi, l’evoluzione 'contiana' di M5s e il ballo al confine tra normalità e sovranismo delle due Leghe – hanno contribuito a riportare in 'sala d’attesa' milioni e milioni di italiani e di voti. Anche il Pd di Enrico Letta, vincitore sul campo, soprattutto dove M5s ha ceduto il passo come a Roma e Torino, segna una contrazione quantitativa dei consensi e deve osservare la crescita di eterogenee e ancora disarticolate aree di centro, capaci comunque di risucchiare voti dai dem anche, evidentemente, per la linea politica assunta da questi su alleanze e temi sensibili. In nessuna delle città vinte dal centrosinistra (con o senza M5s) si è risvegliato un vero sogno, una passione, un’ondata di partecipazione. Il rischio di 'vittorie stanche' è alto anche per il segretario dem e per l’intero campo del centrosinistra (così come, ovviamente, per le amministrazioni vinte o confermate da un centrodestra che oggi, ripetiamolo, è un destracentro). Indagare l’astensionismo è ora compito dei leader già in campo e di quelli che potrebbero candidarsi ad esserlo da qui al 2023.
A spanne si può dire che nel non voto si accavallano e sovrappongono varie istanze: ne è una parte la domanda di buona e saggia politica che evidentemente non viene raccolta dagli attuali partiti; ne è una parte il radicalismo deluso dalle evoluzioni 'moderate' del M5s, che non è andato a redistribuirsi nell’offerta politica ora esistente e che potrebbe essere preda di altri radicalismi; ne è un’altra parte chi continua a immaginare cambiamenti più coraggiosi delle politiche, a partire da quelle per l’ambiente; ne è un’altra parte ancora chi attende la nascita di un centrodestra europeo, riformista e liberale; ne è una parte, la più consistente, una moltitudine di famiglie, lavoratori, piccoli imprenditori, commercianti, artigiani, precari e persone in stato di disagio economico e sociale che non 'pensano alla politica' ma cercano, sopra ogni cosa, risposte concrete.
Si può immaginare che non manchino dentro questi pezzi di disaffezione e di distanza anche tanti credenti. Sul profilo dei candidati a sindaco, tuttavia, i dem e il centrosinistra registrano innegabilmente un punto di contatto forte con gli elettori che non si sono allontanati dalle urne: si tratta di primi cittadini 'draghiani' non per cultura politica ma per indole pragmatica. Lo è Roberto Gualtieri, ex ministro certamente poco incline all’annuncismo. Lo è l’ingegnere Gaetano Manfredi a Napoli, l’accademico e amministratore di lunga gavetta Stefano Lo Russo a Torino, il riconfermato manager Giuseppe Sala a Milano. Quantomeno è chiaro che un pezzo di Paese sta chiedendo, e si sta rivedendo, in profili considerati affidabili. Quanto a due dei leader più attesi a questa competizione elettorale, Giorgia Meloni e Giuseppe Conte, il bilancio è magro.
La leader di Fdi pensava di poter incassare da ogni lato – dai delusi 5s, dal ridimensionamento della Lega, dagli ex forzisti – e invece si trova con l’urgenza di dover spiegare cosa vuole fare da grande, e soprattutto con quale compagnia. L’ex premier, invece, deve rispondere di due dati oggettivi: dove M5s governava non governa più anche perché è stata elusa con chiara volontà politica la sua linea delle alleanze con il Pd; dove governerà dovrà dividere tutto in pezzi uguali non solo con il Pd, ma anche con le aree di sinistra e di centro. Un corpo elettorale dimagrito con una testa enorme, quei maxigruppi parlamentari ancora oggi decisivi – se uniti – per qualsiasi maggioranza di governo e per la soluzione di qualsiasi dossier politicoistituzionale, a partire da quello del Colle. Per l’«avvocato del popolo» non sarà facile unire con equilibrio le necessità di un recupero di consenso con le responsabilità cui è chiamata la parte politica che guida.