Lo stupro di Piacenza e il suo «uso». Vittima tre volte
l video di uno stupro, una donna vittima tre volte: una della violenza bruta di un uomo, un’altra della spettacolarizzazione mediatica e una terza della strumentalizzazione che ha fatto scomparire il suo dolore e l’ha trasformata in una bandiera politica. La brutta vicenda di Piacenza, tutta intera, deve servire a qualcosa. Deve insegnare a chi esercita la professione di giornalista che non tutto si può pubblicare online. Assecondare la logica dei clic può avere conseguenze terribili: sulla soglia del dolore delle persone – siano bambini o adulti, donne o uomini – ci si deve fermare e riflettere.
Talvolta si può decidere di proseguire, se si giudica che le immagini abbiano un valore di testimonianza o di denuncia, o aiutino a far capire a un pubblico vasto la drammaticità di una situazione. Il video girato all’alba di domenica a Piacenza da un cittadino immediatamente dopo aver allertato le forze dell’ordine non fa parte di questa categoria. Lo stesso 'Messaggero' (seguito da almeno altri due siti di grandi quotidiani), che inizialmente aveva pubblicato le immagini oscurate ma comunque drammatiche per ciò che si sentiva distintamente e per ciò che si intuiva visivamente, poche ore dopo le ha rimosse.
Uno stupro è uno stupro: non c’è bisogno di sentire le urla disperate di chi lo subisce o di intravvedere la forza brutale di un corpo che abusa di un altro per convincerci che si tratta di un crimine orrendo, da chiunque sia commesso, italiano o africano, cittadino 'in regola' o persona non gradita sul suolo patrio. Dunque chi gestisce un sito web rifletta bene prima di diffondere materiale così urticante: non si tratta di minimizzare la violenza ma di rispettare la vittima. Nessun automatismo o superficialità sono tollerati, il 'così fan tutti' non è consentito: la responsabilità di una scelta editoriale è sempre del direttore della singola testata e del singolo giornalista. Astenersi, talvolta, è un merito e non una occasione persa.
La stessa lezione però va assimilata da ciascuno di noi in quanto utenti dei social: prima di condividere o rilanciare (e perfino guardare) un video occorre chiedersi se è utile farlo, se si dà un contributo positivo all’ecosistema oppure se si alimentano solo curiosità e voyerismo. La diffusione di un video come quello di Piacenza, peraltro, potrebbe configurare il reato di revenge porn. Più che il timore di commettere un reato, però, a trattenere le nostre dita sulla tastiera dovrebbe essere la stessa considerazione di poche righe sopra: il rispetto per la persona protagonista suo malgrado delle immagini. Non si tratta di una comparsa, di un pupazzo senza anima: no, è una persona in carne e ossa
Una donna che subisce una violenza nel corpo e nell’anima e che per gli anni a venire potrà imbattersi in quello stesso video di cui molti hanno contributo alla moltiplicazione in rete. Una condanna potenzialmente eterna per chi è, tragicamente, solo e soltanto vittima. C’è una terza riflessione. Di fronte a un accadimento drammatico, impugnare il telefonino per filmare la scena può configurarsi come un’omissione di soccorso? Lo si era affermato per il pestaggio fatale di un ambulante nigeriano a Civitanova Marche alla fine di luglio e lo si ripete ora per lo stupro di Piacenza. Nel primo caso, l’autore delle immagini ha spiegato di essersi trovato nell’impossibilità di intervenire per paura di essere ucciso di botte.
Nel secondo, di aver prima chiamato la polizia e poi di aver voluto fissare le circostanze come prova della violenza. In entrambe le situazioni le immagini sono state effettivamente importanti per ricostruire con precisione i fatti. Non si discute dunque l’utilità dei filmati ma il fatto che per realizzarli si siano sottovalutati gli obblighi di intervenire per soccorrere le vittime. Ma questa è un’altra questione, a cui solo indagini approfondite potranno dare un senso e una risposta. In ogni caso, non è il video registrato a Piacenza in quanto tale a essere finito sul banco degli imputati, ma la sua diffusione impropria, inutile e penalizzante per la vittima. Ed esiste un’ulteriore aggravante: l’uso politico che se ne è fatto.
La leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, poi censurata dallo stesso Twitter, ha spiegato di aver preso il video «dalla stampa» e di averlo semplicemente rilanciato sui social. Ma uno stupro è uno stupro, ed è crudele usare lo scempio sul corpo di una donna per accusare gli avversari di aver ridotto l’Italia a un colabrodo in quanto a sicurezza. Le chiediamo e ci chiediamo: quanto Meloni aveva davvero a cuore, nel rilanciare le immagini di Piacenza, la 55enne ucraina stesa a terra e quanto invece la sua campagna elettorale?
Se il criminale fosse stato un giovane italiano anziché un africano con permesso di soggiorno in scadenza avrebbe manifestato lo stesso sdegno? E quale sincera solidarietà ha espresso per la vittima? Niente di nuovo: da anni diversi esponenti di alcuni partiti (uomini e donne soprattutto, ma non solo, di centrodestra) portano avanti sui social il racconto sistematico degli stranieri brutti sporchi e cattivi che invadono le nostre piazze. Ma uno stupro, con corredo di grida disperate della vittima, meriterebbe più prudenza e meno cinismo.