Il direttore risponde. Donne, violenze, il male da fermare
Gentile direttore,
le scrivo perché conosco la sensibilità di Avvenire al tema dei diritti umani. Dovrebbe trattarsi di un interesse centrale, nella politica prima che nell’informazione, ma non sempre è così. Se ne parla spesso sull’onda della cronaca o delle tragedie mentre, in particolare per quanto attiene alle donne, è la frontiera fondamentale per le civiltà nel mondo globale. La premessa serve a introdurre una data – quella di oggi, 25 novembre – che le Nazioni Unite hanno proclamato dal 1999 'Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne'. È l’occasione di un confronto per quanti, a partire da una vasta rete di associazioni e movimenti laici e religiosi, sentono il peso di un conflitto cruento che ha come posta il rispetto di ogni donna e la inviolabilità del suo corpo. Parliamo di cifre impressionanti. Di donne minacciate e torturate in ragione delle loro idee, opinioni politiche, confessioni religiose, o semplicemente perché bambine o donne e in quanto tali vittime di fanatismi antichi e recenti. Basterebbe ricordare che molestie e violenze fisiche sono ancora la prima causa di morte per le donne, e questo spesso avviene al riparo delle mura domestiche, fenomeno che non lascia affatto immune il nostro Paese. Oppure che vi sono realtà dove l’annichilimento comincia prima della nascita e il genere femminile può significare un obbligo all’aborto. E ancora, pensiamo alle bambine impedite nell’accesso alle scuole, alle ragazze costrette a forme di obbedienza tribali, fino alle lapidazioni, ai visi sfigurati e agli stupri etnici. Un quadro allarmante, dunque, al punto che le stesse Nazioni Unite hanno introdotto una fattispecie di reato denominata femminicidio, crimine contro il quale non è consentito alcun relativismo etico. Eppure, nonostante un quadro tanto angosciante, anche su questo piano il mondo è in movimento.
Penso alle giovani arabe della primavera egiziana e degli altri Paesi affacciati sulla costa Sud del Mediterraneo. O a una domanda di liberazione destinata a crescere quanto più la Rete farà circolare notizie e immagini sul coraggio straordinario di tante donne, di tanti giovani. E ancora, penso alle ragazze che nel nostro Paese rivendicano rispetto per sé, fuori dagli stereotipi offensivi e umilianti di questi anni. Viviamo un tempo carico di rischi enormi ma anche di grandi opportunità. Una stagione destinata a considerare il pieno riconoscimento dei diritti umani – civili, politici e sociali – come lo spartiacque tra un nuovo progresso fondato sul dialogo e l’inclusione e il precipizio nelle epoche buie delle discriminazioni, delle guerre tra etnie, dei nazionalismi e degli sfruttamenti. Per queste ragioni la politica deve capire che non tutto si può ridurre agli spread o alle necessarie azioni di risanamento, ma che l’Europa uscirà dalla sua crisi solo reagendo a un modello economico che nella mortificazione dei diritti umani e sociali ha prodotto diseguaglianze e avidità tali da mettere a rischio il destino delle persone, dei beni comuni, della stessa nostra nozione di civiltà. Insomma, senza il riconoscimento dei diritti, a partire da quelli degli ultimi, è più difficile scoprire la dimensione dei doveri, e questo vale anche per un Paese come il nostro, ricco di civismo e solidarietà personali e associative. Forse sento queste cose innanzitutto come donna e, aggiungo, come donna di parte che non rinuncia alle sue passioni. Ma credo di poter condividere questa sfida con quanti ritengono che dalla dignità femminile dipenda l’approdo a una globalizzazione umana e rispettosa dell’uguaglianza e del valore di ciascuno. Il 25 novembre è un’occasione per parlarne e ascoltarsi sapendo che mai come oggi illuminare questa scena è un obbligo morale al quale non possiamo sottrarci, credenti e no, nel nome di una nuova etica pubblica condivisa.
Cordialmente
Barbara Pollastrini, deputato del Pd
La ringrazio, gentile onorevole Pollastrini, per lo spirito che ha voluto infondere al suo ragionamento e per la bella considerazione che oggi esprime riguardo alla lunga e limpida battaglia giornalistica di Avvenire. È del tutto vero che la violenza contro le donne continua a manifestarsi in diversi modi, cruenti o subdoli, ma sempre terribili. E che si consuma spesso e irrimediabilmente già prima della nascita o subito dopo di essa. Aborti selettivi e infanticidi – quelle esecuzioni deliberate e feroci che hanno costruito, e quasi imposto, il concetto di 'femminicidio' da lei richiamato – hanno provocato per tutto il Novecento (e ancora provocano all’alba del Ventunesimo secolo) morti a centinaia di milioni. Uno sterminio, che soltanto una impressionante congiura degli occhi serrati e delle bocche cucite – che si somma all’inesorabile e umanissimo impulso a chiudere la mente davanti all’orrore – impedisce di cogliere nella sua disumana portata. Di fronte a tutto questo, lei – con indignazione e passione politica – dice che «non è consentito alcun relativismo etico». Sono d’accordo. E, come lei immaginerà, sono talmente d’accordo con quella sua frasedenuncia che, anche a costo di ritrovarci in disaccordo, non riesco a limitarne l’orizzonte. Sono infatti uno di quelli – niente affatto pochi e sempre meno timidi, credenti o meno che siano – che vedono e denunciano nel «relativismo etico» l’ingrediente principale del veleno che corrode questi nostri tempi e fa ancora e sempre ingiuste, e violente, le dinamiche e le economie del mondo che viviamo. Penso, cioè, che male e bene esistano, e che bisogna tornare a distinguerli come meritano (senza manicheismi, e però con tutta la chiarezza necessaria). Penso, insomma, che aborto e infanticidio – come ogni altra deliberata 'terminazione' del debole e dell’inerme – non abbiano bisogno della micidiale e intollerabile 'aggravante' antifemminile per essere riconosciuti per quello che sono: una tragedia da sventare, un male profondo da scongiurare e sconfiggere. È una visione, lo so, che qualcuno, con radicale disprezzo, definisce «vitalismo». E so anche che si tratta di un disprezzo identico e opposto (ma neanche sempre opposto) a quello che affiora sulla bocca e dalla penna di qualcun altro quando parla e scrive di «femminismo», prendendosela con le donne e con il loro impegno per porre fine a violenze materiali e sopraffazioni morali. E so che è lo stesso disprezzo della realtà umana che non fa più capire che essere femmina e maschio è anche ed essenzialmente – posso autocitarmi? – «stare assieme e accanto, con uguale altezza e diverso ruolo» (così come ci ha amati sin dal principio Dio, diciamo noi cristiani). Quando non si capisce più questo, si fa trionfare l’incomprensione più ostile e si torna a precipitare nel gorgo della violenza. E si finisce per riprodurla, la violenza, non solo per strada o al chiuso di una stanza che dovrebbe essere amica, ma anche nell’apparente quiete di civilissimi consorzi e di asettici laboratori dove ogni 'provocatoria' e 'depredabile' debolezza (o imperfezione) va tolta di mezzo.
Sì, gentile onorevole, l’ultima violenza progettata contro le donne – mentre troppe altre non si sospendono – è, a ben vedere, proprio questa. Una violenza rivelatrice che ripete l’insulto contro la femminilità e che non riesce a celare (nonostante una coltre di buonismi e libertarismi) l’ansia di 'espropriare' artificialmente le donne della maternità. Penso anch’io, per ciò che lei dice e per ciò che in tanti (credenti e no) abbiamo ormai capito, che il 25 novembre sia un giorno buono per parlare e per ascoltarsi davvero. E penso anch’io che «una nuova etica pubblica condivisa» sia necessaria. Merita un dialogo fecondo, e merita le solide basi che – come dice Papa Benedetto – possono darle solo i valori fondanti «scritti nel cuore» degli uomini e delle donne. Quelli su cui dobbiamo fare perno, e non mercato.