Opinioni

Gli infiltrati nel derby di Roma. Gli ultrà stranieri: violenza premeditata, non calcio

Massimiliano Castellani mercoledì 27 maggio 2015
La storia, ai “soliti noti”, a quest’orda di bamboccioni mascherati, che si fanno chiamare “ultrà”, non ha insegnato proprio niente. Era di maggio, il 29, di trent’anni fa, quando a Bruxelles, 39 civilissime persone, non solo tifosi italiani della Juventus, morivano allo stadio Heysel prima della sanguinosa finale con il Liverpool. Per commemorare i nostri “martiri da stadio”, sono stati scritti saggi, romanzi (da leggere nelle scuole Il giorno perduto di Favetto e Cartwright), sono state promosse tavole rotonde e seminari nei circoli culturali e nelle università. Ma l’ultrà violento non sente e non parla, agisce nell’ombra e colpisce duro, alle spalle.  Quelle della guerriglia dell’Olimpico, prima e dopo il derby Lazio-Roma, sono scene già viste. Era sempre di maggio, il 1° scorso, a Milano quando il centro della città è stato assediato e distrutto dai “black bloc”, i sedicenti oppositori di Expo 2015, giunti da ogni dove. Sono gli stessi che, ogni maledetta domenica, ma anche di lunedì sera, in tutta Europa, dalla loro porzione riservata di Curva dividono e imperano, indisturbati. Hanno facoltà di ferire a morte il tifoso avversario, di catturare e poi torturare il poliziotto, il loro primo, vero, nemico giurato. È inutile anticipare i derby romani del futuro a mezzogiorno – onde evitare le tenebre, perché le “iene” si mimetizzano meglio – , qui serve un definitivo e rapido cambiamento di rotta. Serve far capire, una volta per tutte, specie ai signori della politica, che il calcio è solo un pretesto di un cancro sociale più profondo e radicato. Per la sociologia da ultimo stadio, anche la maglietta sfottò del “Pupone” Totti o il ditino medio alzato a tradimento dall’altro tribuno romanista De Rossi possono alimentare i focolai violenti. Ma siamo seri, queste sono goliardate. Al limite, tempi supplementari di adolescenze maleducate che, da sole, non possono accendere la già incendiaria “torcida” mascherata. I bollenti spiriti ultrà hanno un loro preciso codice bellico, fanno dell’organizzazione premeditata il loro marchio e il comune grido di battaglia. Come si è visto, esistono pericolose e striscianti alleanze internazionali: polacchi, inglesi, greci e bulgari, chiamati a raccolta dagli “Irriducibili” della Lazio. Bastano cinquanta di questi legionari incappucciati per trascinare nel terrore la maggioranza silenziosa. Sono teppisti, alcuni, aspiranti terroristi, che parlano lingue diverse, ma che possiedono un linguaggio universale - diffuso in Rete - , quello del caos violento. Trattasi di “infiltrati”, tutt’altro che inediti. Anche all’Heysel gli scontri mortali pare vennero innescati da infiltrati, hooligans londinesi («in quanto gelosi dei successi del nostro Liverpool», ha rivelato a 'Repubblica' il portiere Bruce Grobbelaar) rimasti ancora impuniti. Ecco cosa fa più paura dell’ultrà-infiltrato, la loro perenne impunità. La t-shirt di Totti non ha ucciso nessuno, mentre per i coltelli e le pistole di questa peggiore gioventù si muore tutti i giorni, fuori e dentro lo stadio. «Io so...» – urlerebbe con noi il calciofilo Pasolini – i nomi e i cognomi, e perfino i numeri civici delle tane in cui risiedono gli infiltrati, spettro del terzo millennio.