Carceri. Recidiva zero, ma prima violenza sulle persone zero
Mario Marazziti
Non è impossibile guarire dalla malattia pervasiva che si chiama violenza. È necessario. Soprattutto quando arriva, come un boato lontano, la notizia degli arresti di 13 agenti della Polizia penitenziaria e di altri 8 coinvolti, per una pratica reiterata e sistematica” ai danni di minori al Beccaria di Milano. Accuse che contengono tortura e violenza. La violenza senza vie d’uscita può portare alla disperazione, fino ai tentativi estremi di autolesionismo. Il carcere non è uno stigma, ma per tantissimi – anche per chi ci lavora – lo è. È colpa nostra. L’autolesionismo e la rabbia da riversare sugli altri producono frutti amari anche tra chi in carcere ci lavora, ci dicono le statistiche. C’è qualcosa di malato, da cui occorre guarire come comunità. Nella narrazione. Nella concezione del mondo e della pena. Nella formazione degli operatori. Nella concezione dell’altro, sempre.
C’è una storia di insuccessi riassunta nel dato, terribile, di una recidiva che riporta dietro le sbarre sei, sette detenuti ogni dieci, quasi sempre è per reati più gravi della prima volta. È così che la pena, anche senza volerlo, ha cambiato natura, virus e non medicina, un “re Mida” al contrario, che coinvolge e a volte corrompe anche chi dovrebbe aiutare. Se confermate, le accuse feriscono tutti. I ragazzi pestati da sette, dieci contro uno nei punti senza telecamere dell’istituto. Quelli spaventati e zitti. Quelli che in carcere ci lavorano, gli educatori. Chi sta fuori, noi, e quanti pensano che invece ci sia una via umana per attrarre a un senso e gusto diversi della vita. “Recidiva zero” ha provato in maniera iconoclasta e audace a proporre il Cnel.
Un sogno non irraggiungibile a patto che ne venga realizzato, strada facendo, un altro: violenza sulle persone zero. Le accuse, gravissime, coprono un arco di tempo lungo, con testimonianze incrociate, in un istituto che ospita circa 70 minori – molti ragazzi stranieri non accompagnati – che convivono con i più grandi fino ai 25 anni. L’inchiesta giudiziaria farà più chiarezza. Ma che la violenza negli istituti di reclusione esista, che sia contagiosa e non riguardi soltanto i detenuti, è un fatto confermato a macchia di leopardo. Da Santa Maria Capua Vetere a Milano. La violenza è come l’umido assorbito dai muri: rimane e diventa un odore, un’aria che respirano tutti. Che si appiccica e deforma. Che ragazzi e ragazzini possano essere autori di violenze terribili dipende dai cattivi maestri. Ce lo raccontano i bambini soldato, le maras sudamericane, le baby gang nelle periferie statunitensi, ma anche i ragazzini violenti dei nostri quartieri bene. Nelle piccole bande il confine tra bulli e bullizzati è mobile.
La violenza di tanti nasce da un amore rifiutato, in un mondo senza padri e senza madri, ed è spesso “virtù impazzita”. Esprime una tenerezza mai provata o trovata solo nel gruppo, quando un “fratello maggiore” ne offre un surrogato e una paternità malata. Da questo si guarisce solo se il sistema sa offrire speranza, futuro, dignità, ascolto, paternità, maternità, tenerezza. Da tutti e a tutti. Smettendola anzitutto con il disprezzo per chi sta dentro. La violenza non si vince mai con la violenza: a sedici anni è l’amore, il trovare un senso che conquistano, non la paura. Vale per quei ragazzi ciò che vale per i nostri figli: due ore di scuola al giorno sono troppo poche. Anche chi lavora in carcere non va lasciato solo. C’è bisogno di una formazione umana, permanente e regolare, con più incontri fuori dagli istituti. Per ritrovare l’anima di un lavoro fondamentale. «Volete prevenire i delitti? Fate che le leggi sian chiare, semplici, e che tutta la forza della nazione sia condensata a difenderle, e nessuna parte di essa sia impiegata a distruggerle», diceva Cesare Beccaria, il giovane padre di un diritto che è stato capace di concepire una giustizia senza pena di morte e senza tortura.