Con i missili che ancora sibilano, mentre al Cairo prende corpo una tregua che va ben al di là dei raid su Gaza e dei razzi di Hamas, questa crisi mediorientale ha già segnato alcuni punti fermi. Che difficilmente potranno essere sovvertiti da novità dell’ultima ora. La crisi ha infatti già prodotto vincitori e vinti. Su tutte troneggiano due figure: il capo indiscusso di Hamas, Khaled Meshaal, e il suo grande sponsor, il presidente egiziano Mohammed Morsi. Il primo è stato di fatto riconosciuto, in primis da Israele, come il vero interlocutore palestinese. Un ruolo politico che era cresciuto con la vicenda della liberazione del caporale Gilad Shalit (quando Gerusalemme per la prima volta ha trattato con Hamas), e che ora è sotto gli occhi di tutti. Grazie anche all’altro vero protagonista (e probabilmente vincitore assoluto) di questa situazione: Morsi. Con l’appoggio turco e delle monarchie del Golfo, il successore di Mubarak è riuscito, almeno in parte, a riportare Hamas nell’area di influenza del Cairo. Offrendo in cambio le “garanzie” che Israele, gli americani e in parte l’Europa chiedono. E soprattutto, progressivamente, sta sganciando il movimento fondamentalista dal mondo sciita guidato da Teheran. Questo apre molti altri scenari che il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha messo, o sta mettendo in queste ore, sul piatto della bilancia: primo fra tutti quello della questione del nucleare iraniano e di una possibile accelerazione da parte israeliana. Non ci sarà mai un avallo da parte del nuovo fronte mediorientale guidato proprio da Morsi, ma l’eventuale reazione a un raid di Gerusalemme non sarebbe sicuramente la stessa di mesi fa. Altra variabile che a questo punto andrà ricalcolata è la questione siriana: Assad – che in questi giorni ha goduto di una situazione di “buio" mediatico e diplomatico – dovrà fare i conti con protagonisti regionali rafforzati, come la Turchia che, dopo aver flirtato per anni con il regime di Damasco, ora è il Paese che più di altri attende l’uscita di scena del rais alauita. Nel campo dei “vincitori” si può collocare anche Netanyahu: il suo obiettivo è una sorta di “normalizzazione” a Gaza, bloccando militarmente la minaccia dei razzi e facendo forse qualche concessione, simile a quelle godute dalla Cisgiordania, come ad esempio l’eliminazione dell’embargo che sta strozzando da anni la Striscia, con in più il tacito assenso egiziano. Dal punto di vista politico, in chiave elettorale, ne esce più che rafforzato, e a livello internazionale ha evidenziato a Barack Obama il fatto che le porte chiuse in faccia nei mesi scorsi (con il rifiuto di colloqui all’assemblea generale dell’Onu a settembre) dovranno essere riaperte al più presto. Magari già dal segretario di Stato uscente Hillary Clinton, che è nella regione dopo mesi di assenza. Sull’altro fronte, quello di chi da questa crisi sembra uscire con le ossa rotte, c’è invece il presidente dell’Anp, Abu Mazen: rimasto in ombra per l’intera settimana se non per dichiarazioni di circostanza, si trova ora ad affrontare la scadenza del 29 novembre alle Nazioni Unite per il riconoscimento dello status di “osservatore”. Un riconoscimento che potrebbe però apparire, alla luce dei sovvertimenti in atto, come una scatola vuota. Con un alto significato simbolico, ma nulla di più, perché il suo ruolo di unico interlocutore palestinese con Israele viene decisamente ridimensionato da questa crisi. Da ultimo, Mahmoud Ahmadinejad, o meglio l’ayatollah Khamenei, che è il vero fulcro della politica estera iraniana. Il presidente iraniano – con un mandato in scadenza e ormai pronto a lasciare la scena politica internazionale – sapeva da tempo che la questione di Gaza, come del resto quella siriana, poteva giocare un ruolo fondamentale nella penetrazione in Medio Oriente e nell’accerchiamento dello «Stato sionista», come lo chiama lui. Per questo armi e fondi ad Hamas, e alla galassia estremista che lo circonda, non sono mancati. Ma ora sembra uscirne male, vedendo crescere il ruolo dell’Egitto sunnita e della Turchia. Insomma: un momento di bassa marea, di isolamento. Che però anche in passato è sfociato in accelerazioni violente da parte di Teheran. Di questo sono ben consci in molti. Stati Uniti per primi.