Vincere troppo fa male all'Iran. Teheran, la strategia di Trump, il ruolo dell'Europa
Teheran, la strategia di Trump, il ruolo dell'Europa In fondo utilizzare l’iperestensione del nemico è un classico della grande strategia. Avendo fallito nello sconfiggere l’Iran e i suoi alleati sul campo mediorientale, si cerca di colpirlo sfruttando proprio il prezzo dei suoi successi, la sua iperestensione appunto, rischio che si annida dietro ogni espansione geopolitica di uno Stato. E così oggi Washington sembra puntare sulla debolezza economica di Teheran, che ha sì vinto in Iraq e Siria la 'guerra per procura' contro l’Arabia Saudita, ma affrontando costi difficilmente sostenibili per un’economia piena di storture come l’iraniana, che si stava a fatica riprendendo dalle dure sanzioni imposte negli anni scorsi per spingerla al compromesso nucleare.
Il presidente Trump nella scorsa primavera ha quindi deciso di ritirarsi unilateralmente dall’Accordo sul nucleare firmato dalla comunità internazionale con l’Iran nel 2015 e di re-imporre sanzioni draconiane contro chiunque faccia affari con l’odiata Repubblica islamica. L’obiettivo neppure velato è quello di provocare il collasso del sistema di potere iraniano per realizzare il sogno del regime change, che la destra americana insegue dalla caduta dello scià Reza Palhavi (e sono passati ormai 40 anni!).
Chi conosce quello strano, affascinante, complesso Paese che è l’Iran sa bene come ogni tentativo fatto dall’Occidente in passato per condizionarlo o piegarlo alla fine abbia dato effetti controproducenti. E che anzi, le minacce di azioni militari o di embargo commerciale hanno finito per radicalizzare le posizioni di Teheran piuttosto che ammorbidirle. Ma né Trump, né i suoi consiglieri, né – tantomeno – i suoi alleati regionali dimostrano di capire la storia iraniana. E in fondo non vogliono neppure farlo, perché politicamente è più utile limitarsi a demonizzarlo.
Sul fronte interno, a Teheran, si stanno già vedendo gli effetti: il rial, la moneta nazionale, tracolla, le prospettive di crescita economica peggiorano, aumenta il malcontento per l’inflazione e la crisi. Ma il risultato più preoccupante è il riallineamento del presidente moderato Rohani con i conservatori e i pasdaran, le potentissime guardie della rivoluzione. Da tempo attaccato da queste fazioni proprio per le sue continue aperture e concessioni all’Occidente, il presidente ha scelto toni bellicosi per rispondere alle sanzioni di Washington, minacciando addirittura di bloccare il traffico marittimo lungo lo stretto di Hormuz, vena giugulare del commercio di petrolio mondiale. Una dichiarazione roboante che ha subito visto il generale Suleimani, capo delle forze di élite dei pasdaran – considerato 'la volpe del deserto' iraniana per le sue vittorie in Iraq e Siria – congratularsi pubblicamente. Un endorsement non casuale, che vuole far intendere al mondo come il gruppo di potere post rivoluzionario, per quanto fortemente diviso al proprio interno, è ben capace di compattarsi in caso di minaccia.
È il ben noto nazionalismo iraniano, che spinge anche chi detesta il regime al potere a sostenerlo in caso di aggressione esterna, e che finisce per rafforzare i conservatori invece che i moderati. I quali non hanno altra scelta che allinearsi a chi difende la Repubblica islamica dai suoi nemici. È già successo diverse volte in questi decenni: ogni qual volta i conservatori iraniani erano in difficoltà e il Paese sembrava aprirsi al mondo, ecco che le lobby antiiraniane, estremamente influenti nei circoli politici di Washington, hanno forzato la mano per isolare nuovamente Teheran. Per evitare tutto ciò, Rohani e i gruppi riformisti stanno in queste settimane premendo sull’Europa perché mantenga i patti siglati e non si faccia spaventare dalle minacce di ritorsione finanziaria fatte da Trump. Bruxelles ha promesso che continueranno gli scambi commerciali e che l’accordo nucleare non si tocca. Ma in pochi credono che un’Europa così divisa e confusa come l’attuale possa resistere alle pressioni d’oltreoceano. E in Iran ci si prepara alla nuova tempesta, che non ha mai favorito le posizioni concilianti, ma che asseconda la voglia di scontro che sembra purtroppo dilagare in Medio Oriente.