Nella partita delle nomine. Vince l'asse franco-tedesco. Alla Ue ora tocca ripartire
Hanno vinto i francesi. E poi i tedeschi. Ha vinto prima di tutto Emmanuel Macron e la sua idea di Europa liberale e a seguire l’armata cristiano-democratico-sociale capitanata da Angela Merkel. O, se preferite, ha vinto l’asse franco-tedesco, eterno simulacro di quell’Europa carolingia che alberga silenziosa nel cuore dell’Unione Europea e che ne conserva una sorta di orgogliosa entelechia, ovvero una missione e un destino (se pure mutilati del riconoscimento delle radici cristiane in ossequio alla laïcité imposta dai francesi) che solo Parigi e Berlino si riservano il diritto di perseguire. Ma più che i nomi (Christine Lagarde e Ursula von der Leyen, una francese alla Bce e una tedesca alla Commissione, magnifica accoppiata di falchi dal sorriso gentile), più che i ruoli (il liberale belga Charles Michel amicissimo della Francia e il socialista catalano Josep Borrell Alto rappresentante per gli Affari Esteri sullo scranno che fu del conterraneo Xavier Solana, l’italiano David Sassoli in quota Pse per metà mandato alla guida dell’Europarlamento) è il metodo, o se volete la dinamica che hanno fatto la differenza. A cominciare dalla morte nella culla dello Spitzenkandidat Manfred Weber, che Frau Merkel credeva (o, meglio, fingeva di credere) già sicuro presidente dell’Europarlamento così come è tramontata la candidatura data per certa nel 'pacchetto- Osaka' dell’olandese Frans Timmermans alla guida della Commissione.
Ma quelle erano le ombre della caverna della vecchia Europa, quell’Europa che i populisti-sovranisti (e non soltanto loro) volevano spazzar via e che la cancelliera Merkel, al di là dell’indubbia autorevolezza e della lunga dimestichezza con i rituali europei che le hanno consentito di rimediare in corsa, ha invano difeso. Non senza rivelare, come una corda ormai lisa, i segni inaggirabili di una fantasia politica e di una lungimiranza ormai usurate. A uscire dagli schemi è stato viceversa il giovane Macron, capace di proiettare al vertice della Commissione una dama di ferro come la Von der Leyen (mettere in riga la casta militare germanica ancora debitrice del superomismo bismarckiano come ha fatto lei quale ministro della Difesa, è impresa memorabile) e di imporre – ma questo è stato certamente più semplice – un ex ministro dell’Economia di Sarkozy e successivamente direttore del Fondo Monetario Internazionale come la Lagarde alla guida della Bce, assicurando così all’asse franco-tedesco le due poltrone chiave per il governo dell’Unione e a se stesso il ruolo di unico grande ammodernatore dell’edificio europeo.
A collaborare in modo decisivo alla vittoria schiacciante del duo Macron-Merkel sono stati – loro malgrado – i quattro ribelli del gruppo di Visegrád, Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia. Sono loro che hanno fatto saltare il 'pacchetto-Osaka' grazie anche al 'no' dell’Italia che – con quale calcolo o quale sventatezza non sappiamo dire – ha contribuito ad azzoppare la candidatura dell’olandese Timmerman, figura in realtà amica del nostro Paese e sensibile a politiche migratorie condivise e al salario minimo, ma inviso a polacchi e ungheresi per la sua strenua difesa dello Stato di diritto. Il che ha consentito a popolari e liberali di guidare Commissione, Banca centrale e Consiglio e ai socialisti la politica estera e il Parlamento. Da un Paese fondatore come il nostro ci si poteva attendere di più e i cinque anni che verranno non ci faranno grandi sconti: anche se abbiamo scampato una nomina tedesca o finlandese alla Bce, le seconde file dei segretariati che contano, dalla Bei, al Parlamento, alla Commissione, al board della Bce sono saldamente presidiate da fedelissimi di Berlino. Ai sovranisti, gli stessi che il 26 maggio scorso avevano raggranellato un bottino elettorale assai modesto su scala europea nonostante le vistose affermazioni in Francia e in Italia, rimane ben poco. Ma così sono andate le cose. A conferma del fatto che l’Europa, strano e ancora non del tutto decifrabile macro-organismo umano e politico, possiede misteriosi poteri di autoguarigione.
Ora dovrà far vedere, agli scettici, agli entusiasti e ai dubbiosi, se saprà prendere strade nuove e darsi nuove regole. Ma si può fare. Come fin dalle prime battute assicura David Sassoli, neoeletto alla guida dell’Europarlamento: «Non siamo un incidente della Storia, ma i figli e i nipoti di coloro che sono riusciti a trovare l’antidoto a quella degenerazione nazionalista che ha avvelenato la nostra storia. Se siamo europei è anche perché siamo innamorati dei nostri Paesi».