La memoria. Piantare semi d’amore tra le mine. Vietato cedere alla mafia
Sabato, 19 marzo 1994, festa di san Giuseppe. L’aria tiepida già profuma di primavera. Non sono ancora le otto del mattino quando il telefono squilla: «Hanno ucciso don Peppe». Nella casa di Dio. Prima della Messa. Corro. Peppino è là, entrando in chiesa a destra, riverso nel suo sangue. Il sangue dei martiri è il sangue di Cristo. Piombiamo nell'angoscia, lo smarrimento prende il sopravvento. Si capisce subito che la sacrilega esecuzione è stata decretata dalla camorra. Ma perché?
Immediatamente iniziano i depistaggi. «Calunniate, calunniate, qualcosa resterà» disse qualcuno. Non aveva tutti i torti. La macchina del fango entra in azione alla velocità del lampo. Schizzi puzzolentissimi di sterco velenoso arrivano a sfiorare perfino coloro che della camorra hanno da sempre avuto orrore. I credenti si aggrappano al Vangelo: «Beati voi quando vi insulteranno... e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi, per causa mia...».
La verità, lentamente, inizia a farsi strada. Certo, don Peppino non appartiene a quella schiera di santi comunemente intesi. I suoi modi sono spicci, il linguaggio tagliente. Niente di affettato, in lui. Spigoloso, autentico. I suoi orizzonti spaziano al di là dei confini diocesani. Non tormenta le parole per farle dire ciò che non vogliono dire. Sa di vivere in terra di camorra. Tanti criminali li conosce di persona, abitano a quattro passi da casa sua. Sono suoi amici d'infanzia, di studi, di giovinezza.
Strade. Ognuno deve percorrere la sua. Itinerari. Non si capisce tutto e subito. Il Signore ti porta per vie sconosciute. Gradualmente ti fa avanzare, facendoti innamorare del bene, in tutte le sue forme. La prepotenza sui deboli ti diventa insopportabile. Capisci che il tuo posto è stare accanto a loro, agli umiliati dalla vita. Anche per Peppe fu così. Le mafie sono il male. Con i mafiosi non si scende a compromessi. Non sempre lo abbiamo capito. Non per colpa, per carità. Fare, però, oggi un onesto e coraggioso esame di coscienza è doveroso. Sacerdoti collusi e corrotti, negli anni, ce ne saranno stati, inutile negarlo, ma sono un’infima minoranza. Nella maggior parte dei casi ci troviamo di fronte a un’incomprensione del fenomeno.
Non era facile, nei passati decenni, nel nostro amato Meridione, districarsi tra i meandri di una società agricola, povera, arretrata, trascurata dagli anni dell’Unità d’Italia, in balia dei ricchi proprietari terrieri. I mafiosi, i camorristi, gli ‘ndranghetisti, sono camaleonti. Si mimetizzano. Sono ipocriti e vigliacchi. Non attaccano gli uomini di Chiesa frontalmente, li circuiscono, li confondono, li ingannano. Scaltri come serpenti, vivono tra la gente cui succhiano il sangue. Prendono parte alle feste patronali, fanno benedire i loro morti e battezzare i figli. S’inchinano davanti al vecchio parroco poco prima di correre a strangolare un uomo e scioglierlo nell'acido. La stessa società civile negli anni passati brancolava nel buio. Per la mafia siciliana occorrerà attendere le rivelazioni di Tommaso Buscetta a quel grande magistrato che fu Giovanni Falcone per capire com’era organizzata “Cosa nostra”. Gli sterminarono la famiglia.
A Palermo, sei mesi prima dell’assassinio di don Diana, la mafia ammazza uno sconosciuto prete di periferia. Don Pino Puglisi, quel giorno, compie 56 anni. Quale minaccia avrebbe potuto rappresentare, per gli spietati fratelli Graviano, il parroco di Brancaccio? Di cosa hanno avuto paura questi giovanotti forti, vigliacchi e sanguinari? Semplice: il prete va piantando semi d’amore nello stesso terreno dove loro vanno occultando mine. Un lavoro umile, assiduo. Gratuito. Don Pino vuole bene alla sua gente. Chiede, sì, alle autorità costituite, ma per i ragazzi del quartiere. Territorio conteso, dunque, la sua parrocchia. Eterna lotta tra il bene e il male. I fratelli Filippo e Giuseppe Graviano, mafiosi di altissimo livello, non riescono proprio a sopportarlo. Sono arrabbiati. Volentieri gli restaurerebbero la chiesa, se solo quel prete glielo chiedesse. Un suo atto di sottomissione nei loro confronti li manderebbe in visibilio. Don Pino, però, è un uomo libero. Non li teme ma nemmeno li combatte frontalmente. Va per la sua strada. Sereno, fiducioso. I giovani, i bambini lo seguono, di lui si fidano. Qualcuno lo mette in guardia. Lui ascolta, ringrazia. Sorride.
Prete antimafia, don Puglisi? Prete anticamorra, don Peppino? Macché. Preti. Preti e basta. Preti senza aggettivi. Martiri perché liberi. Si chiamano ambedue Giuseppe, i miei confratelli, come il silenzioso custode del piccolo Gesù. Ed essi, come il santo di cui portano il nome, si sono fatti sentinelle attente del popolo loro affidato.
Le prime parole che don Peppino scelse per quel famoso documento scritto per il Natale del 1991 non erano sue: le aveva prese in prestito dai vescovi campani che, a loro volta, le avevano tratte dal profeta Isaia: «Per amore del mio popolo non tacerò». E non tacque. E chiede a noi oggi di non tacere. Altri pensarono di tappargli la bocca. La farina del diavolo, però, finisce sempre in crusca. La morte non solo non la serrò, quella bocca, ma la fece gridare a squarciagola. La sete di giustizia dei nostri due preti martiri meridionali varcò i contini regionali e anche nazionali. La loro testimonianza è stata per l'Italia e per la Chiesa del nostro tempo un vero terremoto. Le mafie sono belve maledette che sguazzano nell’acqua putrida di una “cultura” maledetta. La cultura del “non vedo, non sento, non parlo, non m’importa”. Occorre bonificare la palude. E in fretta. Siamo già in ritardo. Due secoli sono tanti.
Sono trascorsi 30 anni da quella mattina. Il testimone è passato a noi e a chi verrà dopo di noi. Vietato tirare i remi in barca. Vietato ogni pur minimo cedimento alla mentalità mafiosa. Per tutti, non solo per i preti. Obbligatorio ripetere – con le parole e con la vita – il grido di san Giovanni Paolo Il nella valle dei Templi ad Agrigento: «Mafiosi, convertitevi!». Necessario ricordare le parole di papa Francesco in Calabria: La 'ndrangheta è «adorazione del male e disprezzo del bene comune».
La storia delle mafie in Italia non è un problema solo del nostro Sud, ma dell’intera nazione. Ai mafiosi, insieme a don Diana e don Puglisi, vogliamo ripetere: «Convertitevi! Smettetela d’ingannare e di ingannarvi. Smettetela di tormentare la nostra terra. Ritornate a essere uomini. Non spalancate ai vostri figli le porte del carcere duro o del camposanto. La vostra è una guerra perduta in partenza perché sempre e dovunque “forte come la morte è l’amore”».
Grazie, don Peppino caro. Prega per noi.