Covid, siamo in guerra (e come nel ’41). Viene il peggio serve il meglio
Molti non amano paragonare la lotta che tutto il mondo sta conducendo contro il nuovo coronavirus a una guerra mondiale.
Eppure, anche se l’immagine è forte e per molti versi disturbante, credo che sia solo rifacendoci agli schemi organizzativi e mentali di una guerra che potremo veramente sconfiggere questo nemico invisibile. Negli Stati Uniti che hanno drammaticamente sottovalutato questa sfida, si è superata quota 24 milioni di contagi. E di questi oltre il 60% è stato registrato dopo il 4 novembre, la data delle elezioni presidenziali. E il numero dei morti ha oggi superato quota 400mila, più delle vittime della Prima guerra mondiale, della guerra di Corea e della guerra del Vietnam messe insieme.
Nel nostro Paese la mortalità è già paragonabile a quella della popolazione civile nell’intera Seconda guerra mondiale. Il problema è che questa consapevolezza non è diffusa in gran parte dell’opinione pubblica e della politica. Il nuovo coronavirus è un nemico che ha tratto enormi vantaggi dalla globalizzazione e dalla connessa rapidità degli spostamenti delle persone, che in poche ore possono trasferire se stesse, e il virus da cui sono infette, da una parte del pianeta all’estremità opposta. È un virus che ha imparato le lezioni impartite dall’uomo nella sua millenaria battaglia contro i microrganismi. Si trasmette da soggetti asintomatici apparentemente sani, prima dell’esordio sintomatico, durante la malattia conclamata e persino dopo la guarigione clinica. Solo un esercito ben organizzato che affronti tutte le fasi di questa potenziale contagiosità può vincerlo e, a tutt’oggi, questo esercito non c’è, o almeno non si è ancora organizzato.
Anche in Italia ci si crogiola nell’illusione che il peggio sia passato e che possiamo avviarci rapidamente verso la vecchia normalità, soprattutto ora che abbiamo un vaccino. Invece bisogna dire con chiarezza che se fossimo nel corso della seconda guerra mondiale non saremmo nel 1945, quando già si poteva guardare alla Ricostruzione, ma nel 1941, in pieno conflitto, che potremo vincere solo se baseremo le decisioni sull'evidenza scientifica e su un’organizzazione consapevole, disciplinata ed efficiente.
Oggi per noi la sfida è limitare la circolazione del virus, bloccare le nuove varianti, più contagiose, e fare una vaccinazione di massa, quanto prima e nel modo migliore. Non è un caso che la nuova amministrazione Usa finalmente abbia messo questo obiettivo al primo posto, proponendosi di vaccinare 100 milioni di americani nei primi 100 giorni.
Noi non siamo sulla buona strada. Anche se abbiamo dimostrato un buon livello di efficienza nel vaccinare il personale sanitario, già nella copertura degli ultraottantenni palesiamo notevoli difficoltà che si moltiplicheranno nella seconda fase, quando dovremo vaccinare almeno 250mila persone al giorno. Le difficoltà sono enormi: l’implementazione della vaccinazione di massa rappresenta un evento senza precedenti che comporterà un impegno straordinario da parte di tutti.
Se l’organizzazione logistica di sistema per l’acquisizione, la conservazione, la distribuzione delle dosi ai centri individuati dalle Regioni per l’effettuazione delle vaccinazioni è ben presidiata dal piano predisposto dalla struttura commissariale, non è pensabile che questa possa da sola gestire con efficacia e continuità la somministrazione del vaccino a milioni di persone. Attività che deve essere programmata, organizzata e gestita da una leadership che si dedichi solo a questo per i prossimi mesi, valorizzando le competenze presenti nel Ministero della Salute e nelle sue strutture di supporto, nonché di quelle operative nel Servizio sanitario nazionale nelle proprie articolazioni regionali.
Non è pensabile non coinvolgere i Dipartimenti di Prevenzione, coloro cioè che da decenni operano nell’ambito di campagne di prevenzione collettiva, delle profilassi vaccinali, degli screening oncologici, del counselling comportamentale, della preparazione e risposta a emergenze di varia natura. Il loro ruolo di coordinamento locale nell’utilizzo delle risorse, nella individuazione dei percorsi più appropriati, nella comunicazione alla popolazione, nella formazione dei sanitari e nella valutazione dell’impatto della campagna vaccinale appare imprescindibile e al contempo a tutt’oggi sottovalutato o sostanzialmente ignorato.
Grande attenzione va inoltre riposta sugli aspetti formativi e comunicativi. Perché bisogna creare un terreno fertile all’adesione su tutto il territorio nazionale. Oltre a messaggi veicolati attraverso i media tradizionali, i social e la rete internet, fondamentale in questo senso appare il presidio del livello di conoscenza della materia da parte di tutto il personale sanitario, a partire dai medici di medicina generale a cui si rivolgerà la maggioranza degli esitanti. Cruciale sarà la raccolta standardizzata dei dati vaccinali delle singole Regioni tramite un sistema informatico condiviso, con la possibilità di accesso da parte di tutti con la possibilità di estrarre informazioni di interesse in maniera automatica, senza essere condizionato da ritardi di trasmissione periferia-centro. Come ci hanno dimostrato le esperienze inglese e israeliana, grande attenzione dovrà poi essere posta alla logistica: in questa fase abbiamo vaccinato nelle strutture sanitarie, ma i luoghi maggiormente adatti a vaccinare grandi numeri di persone sono rappresentati dai palazzi dello sport, dai padiglioni fieristici, da hangar o altre strutture che prevedano grandi spazi di parcheggio e la possibilità di accogliere le persone al coperto e di tenerle in osservazione dopo la vaccinazione. Da considerare anche l’opzione di «drive through» vaccinali, cioè di luoghi dove si potrà essere immunizzati senza scendere dalla propria auto. Non sappiamo esattamente quanto ancora ci vorrà per vincere questa guerra, ma bisogna partire subito, e bene. Muoviamoci.