Opinioni

Scenari. Vie innovative contro la fame

Vittorio Pelligra lunedì 21 ottobre 2024

Oggi nel mondo circa 692 milioni di persone, l’8,5% della popolazione globale, vive in condizioni di miseria estrema. Sono persone che dispongono per sopravvivere di meno di 2,15 dollari al giorno. Il dato allarmante che emerge ora è che dopo anni di riduzione del fenomeno negli ultimi cinque anni il processo di riduzione della povertà sembra essersi fermato. Con la sottoscrizione dell’Agenda 2030 i 193 Paesi delle Nazioni Unite avevano posto l’eradicazione di questa forma estrema di miseria come primo dei 17 obiettivi dello sviluppo sostenibile. Ci eravamo impegnati tutti allora, ma stando alle proiezioni della Banca Mondiale, saremo fortunati se entro il 2030 la percentuale di persone in condizioni di miseria si sarà ridotta dall’8,5 al 7,3%. Questi dati appaiono assieme a molti altri nell’ultimo Report sulla Povertà della Banca Mondiale, intitolato “Pathways Out of the Polycrisis. Poverty, Prosperity, And Planet Report 2024” che Paolo Alfieri ha sintetizzato in un bell’articolo pubblicato qualche giorno fa su Avvenire. “Vie d’uscita dalla poli-crisi”, recita il titolo, vie d’uscita dalle molteplici e dilaganti crisi che esercitano un effetto drammatico sulle condizioni di vita di milioni di persone in tutto il mondo. Siamo davanti a crisi multiple e simultanee le cui interazioni amplificano l’impatto complessivo. La pandemia, il rallentamento della crescita economica, l’esplosione di nuovi conflitti, gli insufficienti progressi nella condivisione dei benefici derivanti dalle nuove tecnologie, solo per fare qualche esempio, sono fenomeni collegati tra loro e sono tra le cause dell’inefficacia delle politiche di contrasto alla povertà. Ma se è vero che questi recenti choc giocano un ruolo determinante è anche vero che la povertà ha radici antiche e alleati culturali.
Lo dimostra il fatto che lo scandalo della povertà raramente viene percepito nella sua effettiva gravità a causa di una diffusa “aporofobia”, un dilagante moto di disprezzo che nei Paesi ricchi si prova nei confronti dei poveri. Una cultura del disprezzo accentuata dall’assurda retorica della meritocrazia che ha come effetto collaterale il disinteresse, quando non l’aperta opposizione dell’opinione pubblica, verso misure politiche rivolte agli strati più deboli e vulnerabili della popolazione. «Poiché [questa] narrazione collega il successo al duro lavoro – scrive l’economista Jeff Furher nel suo ultimo libro – i poveri sono visti con diffidenza e sospetto: cosa hanno fatto di sbagliato per diventare così poveri? Perché non hanno lavorato di più? Quante opportunità hanno sprecato? Perché dovremmo aiutarli se sono i primi responsabili delle loro sventure?». Sappiamo bene che le cause remote della povertà sono altrove. Ce lo spiegano egregiamente i lavori di Daron Acemoglu, Simon Johnson e James Robinson i tre economisti che lunedì scorso sono stati insigniti del Premio Nobel proprio per i loro “studi sulla formazione delle istituzioni e la loro influenza sulla prosperità”. La povertà, così come la prosperità sono costruzioni sociali. Sono le conseguenze delle istituzioni, delle regole che influenzano il funzionamento dell’economia e degli incentivi che motivano i singoli individui. «Per capire la ragione delle grandi disuguaglianze a cui oggi assistiamo nel mondo, bisogna scavare nel passato e studiare la dinamica storica delle società», scrivono Acemoglu e Robinson nel loro “Perché le Nazioni Falliscono”. Si concentrano in particolare sui processi di colonizzazione di molti Paesi dell’Africa subsahariana, dell’Asia meridionale e dell’America Centrale evidenziando come in alcuni casi gli europei hanno impiantato nelle loro colonie istituzioni puramente “estrattive” capaci, cioè, di produrre valore economico dalle risorse naturali locali e dal lavoro di quei popoli, e di sottrarlo ai luoghi di produzione che diventavano così sempre più poveri. In altri Paesi le istituzioni sono invece di tipo “inclusivo” e favoriscono la partecipazione delle persone alla vita economica, producendo beni pubblici, incoraggiandoli a sfruttare al meglio le loro abilità e consentendo a ciascuno di scegliere l’occupazione preferita. Queste istituzioni investono sui due principali motori della crescita: istruzione e tecnologia.
Come Acemoglu e Robinson usano la storia per dare nuova linfa all’economia così Paul Collier, nel suo ultimo libro “Poveri e Abbandonati”, indica nell’alleanza tra psicologica sociale, filosofia morale, scienza politica e della complessità la strada per dare all’economia nuovi strumenti per leggere correttamente i fenomeni attuali e dare risposte efficaci a problemi sempre più pressanti come quello della povertà globale. Perché, come conclude Collier «I luoghi rimasti indietro hanno bisogno di qualcosa che permetta loro di andare oltre le ortodossie economiche che li hanno tenuti sotto scacco» e perché quei 692 milioni di individui che vivono ancora oggi nella miseria estrema sono uomini e donne bambini e vecchi, persone in carne e ossa che reclamano giustizia perché la loro unica colpa è essere nati lì e non qui.