Opinioni

Un Paese spaccato nell'inerzia americana. Il vicolo cieco dell'Egitto e l'errore delle Forze armate

Giorgio Ferrari domenica 28 luglio 2013
È molto probabile che in un prossimo futuro l’espressione "primavera araba" assumerà per antonomasia il significato di una promessa di riscatto precocemente precipitata nel fallimento e nel dramma. Troppe "primavere" – praticamente tutte, da quella libica a quella tunisina, dallo Yemen al Bahrein – lo attestano. L’Egitto di Mohammed Morsi e del generale al-Sissi non fa eccezione. A un mese dalla rivolta di popolo che portò milioni di persone per le strade del Cairo, di Alessandria, di Suez a reclamare la fine di quel giogo ottuso e politicamente suicida che era diventato il governo a guida della Fratellanza Musulmana, il Paese ribolle di rivalità insanabili, di lutti, di incarcerazioni di massa, spaccato in due dalla contrapposizione sempre più sanguinosa fra il blocco laico e liberale dei Tamarod, dei nostalgici di Abdel Gamal al–Nasser e dei feloul – (letteralmente: "gli avanzi"), come spregiativamente vengono chiamati gli orfani di Hosni Mubarak – e il vasto arcipelago dell’islamismo di Morsi, moderato ma soffocante, pervasivo e intollerante quanto quello dei salafiti, grazie ai quali nel 2012 Morsi guadagnò il 52% dei consensi nella prima elezione democratica della storia del Paese. Grave responsabilità nel precipitare dell’Egitto verso quella che a tutti gli effetti assomiglia al prodromo di una guerra civile va ascritta alle Forze armate.Da arbitro e garante della transizione democratica, Abdel Fatah al–Sissi, l’uomo forte che quotidianamente appare in televisione coronato di medaglie a chiedere alla piazza una sorta di viatico morale per attuare la feroce repressione contro quello che definisce «il terrorismo e la violenza di chi vuole disgregare il Paese» (solo la notte di venerdì almeno una cinquantina di caduti sotto le raffiche dei militari), ha finito con il tramutare le Forze armate nell’attore principale del dramma egiziano. Con il risultato di radicalizzare ulteriormente la frattura con i Fratelli Musulmani, sospingendoli (complice la magistratura che, con tempismo più che sospetto, ha spiccato accuse e ordini di cattura nei confronti di Morsi e del morshid, la guida ideologica dei Fratelli, Mohammed Badie) verso un irrimediabile scontro frontale e contemporaneamente svuotando di ogni autorevolezza il governo di transizione in carica che lo stesso al-Sissi aveva fatto nascere. Né ha giovato in questo contesto la diplomatica titubanza americana, costretta a baloccarsi nel bisticcio semantico attorno all’espressione "colpo di Stato": se così fosse, gli aiuti militari ed economici (1,3–1,5 miliardi di dollari annui) che Washington generosamente elargisce all’Egitto dovrebbero essere congelati, così come le forniture di armamenti.
Ma di colpo di Stato (nonostante le critiche che cominciano a sommergere Obama per quello che a tutti gli effetti è «uno stratagemma legale» del Dipartimento di Stato) oltre Atlantico proprio non si parla. O piuttosto, non conviene: l’Egitto è il bastione americano nell’area nordafricana e insieme la miglior garanzia per le frontiere occidentali di Israele, cui è legato dagli accordi di Camp David. Perdere l’Egitto, o più precisamente lasciarsi sfuggire la solida alleanza con le Forze armate (magari a vantaggio di Mosca, prontissima a sostituirli, come pronte ad allargare i cordoni della borsa sono le monarchie del Golfo), significherebbe perdere ciò che resta – ed è poco – dell’influenza americana nella regione.
Che cosa accadrà, dunque? L’intenzione dei militari parrebbe quella di delegittimare – forse sul piano giuridico, oltre che su quello politico – i Fratelli Musulmani. Il che ci riporta a piè pari al dramma algerino, quando il Fis, il Fronte islamico di salvezza, vincitore delle elezioni politiche con il 47% dei suffragi, venne messo al bando e sciolto nel 1992 e da quel momento protagonista di una sanguinosissima lotta armata. Prospettiva che già si prefigura nel Sinai, dove Hamas e l’islamismo più radicale sono alleati nel destabilizzare la zona. Si direbbe un vicolo cieco, o piuttosto un punto di non ritorno, dove i termini tanto cari a noi occidentali, "primavera araba", "democrazia", "diritti umani" annegano miseramente nei calcoli strategici, negli stratagemmi diplomatici, nelle piccole e grandi convenienze economiche. «Un golpe – si mormora in questi giorni a Washington – è sempre un golpe».