Opinioni

La "poli-crisi". Via dalla trappola suprema della guerra dei potenti

Lucia Capuzzi domenica 9 aprile 2023

La “crisi” è una nota distintiva dell’epoca moderna. Il tratto di millennio che ci troviamo a vivere – la contemporaneità – presenta, però, un’ulteriore evoluzione. Questo è il tempo della “poli-crisi”. Il termine, coniato dal filosofo Edgar Morin nel 1999, è stato scelto tra le parole dell’anno del 2022. E i leader mondiali riuniti a gennaio Davos l’hanno indicata come filo rosso della congiuntura attuale.

L’intreccio di molteplici emergenze – bellica, economica, ecologica – è una realtà con la quale siamo chiamati a fare i conti nel presente e nel futuro imminente. A pandemia non ancora conclusa, la guerra alle porte dell’Europa ha risvegliato nel Continente e nel resto del pianeta gli spettri del Novecento.

Nel mentre, oltre a quello, altri 168 conflitti incendiano il mappamondo, per un totale di oltre 320mila vittime, un record dal 2016. Una Via Crucis planetaria, evocata dalla grande celebrazione al Colosseo, nella notte del Venerdì Santo. Il numero di donne, uomini, bimbi e anziani costretti a fuggire per sopravvivere non è mai stato tanto elevato: 100 milioni. E il moltiplicarsi di muri, vecchi e nuovi, fisici e legali, non riuscirà a fermarli. Il numero dei migranti forzati, oltretutto, è destinato ad aumentare per il crescente impatto del riscaldamento globale che, bruciando i raccolti, condanna alla fame 315 milioni di persone.

Già ora i profughi climatici sono quasi un quarto del totale. Nelle tenebre dense che ci avvolgono, risuona l’interrogativo di Isaia: «Sentinella, quanto resta della notte?». Ma l’aurora appare distante. «Compatta ancora sale sul mondo la Notte», direbbe David Turoldo. Eppure in questa mattina “dopo il Sabato”, di fronte al sepolcro vuoto, la Chiesa ribadisce che il male è signore del penultimo giorno, mentre l’ultimo appartiene alla Vita.

La Resurrezione, alla fine, è la certezza della transitorietà della sofferenza, inclusa quella più estrema, cioè la morte. Intanto, però, brancoliamo nel buio. Come conservare la speranza in una congiuntura di crisi, anzi di “poli-crisi”? Le due parole, a prima vista, sembrano in netto contrasto. La loro etimologia, però, ci rivela un nesso inatteso. “Speranza”, nell’accezione latina, significa “rivolgersi verso una meta” mentre in quella ebraica è la stessa corda tesa. “Crisi”, invece, di derivazione greca, vuol dire “scelta in seguito a un giudizio”. Il presente allora non è solo tempo di turbamento: è il momento della scelta, o meglio, delle scelte.

Non fatte a casaccio, perdendosi nei borgesiani sentieri che si biforcano, bensì alla luce di un orizzonte a cui tendere. Il termine-bussola per non perdere il senso – dell’orientamento e non solo – è “perseveranza”, ovvero la forza di “stare dentro”, senza temere la fragilità, propria e altrui, immersi con il corpo, la testa e il cuore nelle ferite della storia attuale, con le orecchie attente al grido dei sofferenti e le mani protese per rialzare quanti sono caduti.

Sono loro il più sicuro metro di giudizio sulle direzioni da intraprendere. Il “navigatore” più abile per uscire dei vicoli ciechi. Quelli in cui non si vede più, né gli altri né sé stessi. Sono tante le trappole in cui ci infiliamo come singoli e come comunità. A partire dalla trappola suprema della guerra. Gli analisti hanno perfino coniato la categoria di “trappola di Tucidide” – con riferimento alla competizione tra Sparta e Atene – per spiegare come le rivalità geopolitiche finiscano per trasformarsi in pantani bellici. L’esempio di Kiev è eloquente. Il duello tra Mosca e Washington per interposti ucraini rischia di lasciare un solo vincitore ad amministrare le macerie dell’ordine mondiale: Pechino.

Proprio lo stallo può, tuttavia, rappresentare l’opportunità di comprendere quanto sia senza uscita la via intrapresa. E quanto necessario sia – almeno per calcolo – un atto di coraggio dei protagonisti. Un gesto capace di scardinare lo schema obsoleto dello scontro militare a oltranza.

E di aprire un percorso inedito di risoluzione. Ancora una volta, forse, la spinta arriverà dalla periferia planetaria. E dai “periferici”: esseri umani senza potere e senza privilegi da difendere, come coloro che, anche in Italia, si mobilitano da oltre un anno per la pace. «Il mondo cammina grazie allo sguardo di tanti uomini che hanno aperto brecce, che hanno costruito ponti, che hanno sognato e creduto; anche quando intorno a sé sentivano parole di derisione», ci ha detto papa Francesco in una poetica catechesi del 2017.

L’augurio per questa Pasqua è di continuare a camminare, con perseveranza e speranza o, come scrive il Nobel guatemalteco Miguel Ángel Asturias, caro al Pontefice, con un «occhio di carne» per vedere la realtà e guardarla con compassione e un «occhio di vetro» per sognare come cambiarla.