Opinioni

Produrre e consumare non basta. Via da questa «permacrisis»

Leonardo Becchetti venerdì 30 dicembre 2022

Al termine del percorso della manovra finanziaria per il 2023 e ormai all’antivigilia del nuovo anno vale la pena alzare lo sguardo verso l’orizzonte per impostare le nostre strategie future. L’anno che verrà chiude una sequenza di choc vasti e profondi come la pandemia, l’invasione russa dell’Ucraina, l’esplosione dei prezzi del gas che riapre il capitolo inflazione, con lo svilupparsi, come sullo sfondo, di una crisi permanente come quella climatica che, a sua volta, alimenta ripetuti eventi atmosferici estremi.
Non è un caso che proprio in questi ultimi tempi sia stata coniata la parola permacrisis per indicare uno stato di crisi permanente. Come è noto il significato della parola crisi è ambivalente, come sottolineato anche dall’ideogramma cinese dove la stessa significa pericolo ma anche opportunità. Il tempo delle crisi, straordinariamente creativo, è kairos (opportunità) più che kronos (scorrere monotono e sempre uguale degli istanti) che ci induce (anche per spirito di sopravvivenza) a ripensare la nostra vita.

Gli economisti e gli scienziati sociali in generale dovrebbero essere meccanici ed esperti conoscitori del motore e della macchina del sistema socio-ambientale.
È loro compito spiegarne i guasti che alimentano i continui choc e la conseguente crisi permanente.
I guasti principali sono essenzialmente due. Il primo è la confusione del benessere e del benvivere con il surplus del consumatore. I libri di microeconomia che sono alla base delle conoscenze e delle ricette economiche contengono questa fondamentale ed errata semplificazione.
L’unica cosa che sembra contare nell’economia di mercato è garantire prezzi sempre più bassi attraverso la concorrenza. Ma i prezzi bassi non dipendono solo da efficienza e progresso tecnologico e possono invece nascondere mancanza di dignità del lavoro, insostenibilità ambientale e bassa qualità del prodotto.

Il secondo guasto è il focus quasi esclusivo sulla produttività e sull’efficienza che vuol dire, semplificando, produrre più beni e servizi in meno tempo.
La nostra civiltà è nel bene e nel male frutto di questi due errori. Viviamo nel paradiso dei consumatori sommersi da beni di ogni genere e tipo, spesso disponibili a costi molto contenuti, anche se l’inflazione oggi sembra suggerire il contrario almeno nel breve termine. Ma spesso dietro il consumatore esaltato non c’è solo innovazione e progresso, ma c’è anche il lavoratore mortificato e sfruttato (soprattutto nei lavori a bassa qualifica) e l’ecosistema a rischio.

Produttività ed efficienza sono state virtù e ragione di spettacolare successo per moltissimo tempo, avendo portato l’umanità da 230 milioni a 8 miliardi e da 24 a 73 anni di vita media a livello globale. Ma quando l’imperativo è stato lanciato il problema ambientale era lontano mentre ora stiamo sfidando i limiti dell’ecosistema e dobbiamo velocissimamente cambiare direzione e marcia usando la logica della circolarità (creazione di valore economico a minor impatto ambientale possibile).

L’effetto più generale di questi due guasti è una direzione di marcia che ci allontana dalle ragioni più profonde della ricchezza di senso del vivere che non sono lo stordimento di beni di consumo e il produrre di più in meno tempo, ma una relazione armonica con l’ecosistema, la qualità della nostra vita di relazioni, il senso di appartenenza, la trascendenza e il sentirci parte di una storia che ha un significato. Se siamo consapevoli del problema, possiamo risolverlo. Per farlo dobbiamo arricchire di significato la vita delle imprese (cosa che sta lentamente accadendo nel fiorire della biodiversità delle organizzazioni che non mettono più al centro il massimo profitto realizzato non-importa-come) e cambiare gli indicatori di benessere che orientano la nostra marcia.

Un bel segnale arriva dall”Alleanza per l’economia del benessere” una coalizione creata per procedere in questa direzione dai leader politici di alcuni importanti Paesi del mondo. Il dibattito esce così dalle università (dove lo sviluppiamo da decenni) ed entra nella cultura (come con gli indicatori di generatività sviluppati con “Avvenire” e presentati ogni anno al Festival dell’economia civile) per arrivare a incidere su politica e scelte reali. La chiave perché il percorso sia condiviso e dunque abbia successo è però nella capacità di mobilitare e attivare i cittadini in percorsi di partecipazione e cittadinanza attiva distogliendoli da circoli viziosi e perniciosi di tiro al bersaglio in quelle gogne mediatiche in cui si trasformano troppo spesso i social media. I percorsi più volte segnalati del consumo e risparmio responsabile, delle comunità energetiche rinnovabili e dell’amministrazione condivisa sono alcune delle opportunità più promettenti in tale direzione. Costruire su queste basi un’economia e una società civili vuol dire in fondo piegare la potenza incredibile di questa macchina correggendone i guasti ed orientandola nella direzione del bene comune.