Opinioni

Verso la sentenza della Consulta. Suicidio assistito, no a forzature interpretative

Giovanni Maria Flick lunedì 17 giugno 2024

Giovanni Maria Flick

La Corte costituzionale nel 2019 ha ricordato la necessità di un intervento del Parlamento per regolare in maniera organica il fine vita. La legge richiesta dalla Corte non è stata adottata, nonostante l’approvazione di un disegno di legge da parte di un ramo del Parlamento nella precedente legislatura e la presentazione di altre proposte nel corso di quella attuale. Molti ritengono (fra cui il sottoscritto) che l’inerzia del Parlamento su questo tema non sia più accettabile, ma a questo punto occorre chiedersi se ciò non sia frutto di una scelta politica legittima, a prescindere dal merito. La Corte costituzionale ha affermato che la punizione generalizzata dell’aiuto al suicidio si pone in contrasto con la Costituzione e deve riconoscersi la non punibilità di chi agevola il proposito di suicidio «autonomamente e liberamente formatosi» di una persona «tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale»; che sia «affetta da una patologia irreversibile»; che subisca a causa di tale patologia «sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili»; purché però sia pienamente capace di autodeterminarsi. La Corte ha ricordato la necessità di una verifica e di una valutazione da parte di una struttura pubblica sanitaria, «previo parere del comitato etico territorialmente competente».

La sentenza della Corte ha stimolato interpretazioni diverse da parte dei giudici di merito nelle singole situazioni loro sottoposte. Di ciò offre conferma la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Gip di Firenze – su cui deciderà la Corte costituzionale il 19 giugno – in un caso di aiuto al suicidio nel quale il pubblico ministero aveva chiesto l’archiviazione e eccepito in subordine l’incostituzionalità del reato contestato. Il Gip ha sollevato la questione di legittimità ritenendo la fattispecie in contrasto con gli artt. 2, 3, 13, 32 e 117 della Costituzione (quest’ultimo in riferimento agli artt. 8 e 14 della Cedu) nella parte in cui limita la non punibilità dell’aiuto alla sussistenza – insieme agli altri – del requisito che la persona sia «tenuta in vita da un trattamento di sostegno vitale».

La Corte costituzionale nella prima ordinanza del 2018 non aveva dato un’indicazione tassativa per definire tale trattamento. Aveva fatto ad esempio riferimento ai trattamenti di «ventilazione, idratazione o alimentazione artificiali». La giurisprudenza si è già confrontata con casi diversi da quello che aveva portato alla pronuncia della Corte nel 2019 e da quello attuale. Ha ritenuto ad esempio che la somministrazione continua di farmaci e la necessità di praticare manovre di evacuazione manuali per evitare occlusioni fatali fossero condizioni tali da configurare un «trattamento di sostegno vitale». Si è chiesta se sia possibile estendere analogicamente la causa di non punibilità quando la persona – senza l’assistenza continua di soggetti terzi necessaria per l’espletamento delle funzioni vitali (come mangiare e bere) – non potrebbe sopravvivere. Nel caso oggetto della questione di costituzionalità secondo la ricostruzione del Gip la persona non è tenuta in vita da supporti meccanici; non assume farmaci salvavita; non richiede l’assistenza di soggetti terzi per manovre di evacuazione o interventi assimilabili. Il Giudice, tuttavia, non ritiene possibile estendere interpretativamente la definizione di «trattamento di sostegno vitale».

Ciò richiede di porre attenzione sulla «libera scelta» e sulla «essenzialità» del sostegno per la vita (sia esso meccanico, farmacologico o umano-assistenziale) una volta accertata l’irreversibilità della patologia e l’intollerabilità della sofferenza che ne derivi. Non mi sembra si possa rimettere la ricerca dell’equilibrio tra tutela della vita e rispetto dell’autodeterminazione alla scelta di un Giudice in concreto fra una interpretazione in astratto restrittiva o estensiva di uno dei requisiti della causa di non punibilità.Ma non mi sembra neppure che si possa cogliere l’occasione della vicenda sub iudice per chiedere alla Corte costituzionale di spostare l’equilibrio da essa fissato con la sentenza del 2019 tra il valore della vita e quello dell’autodeterminazione personale a favore di quest’ultimo, eliminando il requisito del «trattamento di sostegno vitale». O al contrario che si possa chiedere alla Corte di spostare quell’equilibrio a favore del valore della vita, delimitando in via interpretativa il «sostegno vitale» soltanto ad un intervento “meccanico” che riconoscerebbe una riduzione della persona ad una sorta di “vita artificiale” in termini generali ed astratti.

In entrambi i casi si cancellerebbe per finalità opposte il risultato raggiunto nel 2019 dalla Corte sul presupposto delle quattro condizioni di non punibilità dell’aiuto al suicidio. Non è mio compito entrare nel merito della decisione che la Corte costituzionale dovrà emettere, né avanzare pronostici. Credo che si debba tornare a discutere questo tema senza cadere nella tentazione dei radicalismi – di destra e di sinistra – e delle rigidità ideologiche.Lo Stato deve assicurare la tutela massima della vita, con i servizi sanitari e socioassistenziali e la qualità di essi su tutto il territorio della Repubblica; senza differenze, con un concreto sostegno alle persone e alle famiglie che devono affrontare il dramma delle malattie inabilitanti, irreversibili e dolorose. Mi sembra doveroso – in una società democratica e pluralista basata sul rispetto della pari dignità sociale come richiede la Costituzione – consentire che la persona possa ricevere assistenza al suicidio quando ricorrano le quattro condizioni indicate dalla Corte costituzionale, secondo una loro interpretazione non astratta ma legata alla concretezza delle circostanze e delle condizioni cliniche ed esistenziali; come la Corte ha deciso nel 2019.