Non solo al liceo Tasso. Dai nostri ragazzi uno spettacolo imperdibile
Quello che sta accadendo al liceo Tasso di Roma possiede una dimensione simbolica che corrisponde in pieno alla profonda crisi etica contemporanea: trionfa il clamore mediatico, perdono rilevanza le gerarchie culturali, la democrazia si trasforma in una recita a soggetto, l’istruzione mostra il suo lato più istituzionale e normativo, i precetti si affermano, le passioni vengono meno, tutti cercano il consenso, pochi puntano ai valori.
Ripartiamo dai fatti. L’occupazione studentesca di fine novembre dello storico liceo capitolino ha prodotto danni calcolati in qualche migliaio di euro. Le sanzioni hanno riguardato sospensioni, voto di condotta e coinvolgimento dei ragazzi in attività socialmente utili. Molte famiglie si sono contrapposte a tali misure punitive, in diverse le hanno approvate. Ci sono stati genitori pronti a spalleggiare i propri figli, altri che, in accordo con la dirigenza e circa una metà del corpo docente, vorrebbero inchiodarli alle loro responsabilità, con l’obiettivo di farli crescere. Gli stessi ragazzi non andrebbero considerati in blocco: c’è chi ha partecipato attivamente alla protesta e chi non la condivideva, restando quindi defilato. Chi si è autodenunciato e chi ha taciuto. Numerosi si sono dichiarati a favore dell’autogestione, alcuni indicando la forma del sit-in che ha trovato ampio consenso. Le forze politiche hanno dato l’impressione di voler strumentalizzare l’annosa vicenda tornando a dividersi secondo la vecchia sagoma novecentesca, sempre più consunta e sforacchiata: da una parte i ribelli, dall’altra i conservatori. Sembra di essere di fronte a una commedia in maschera dove conta il ruolo che si interpreta più delle ragioni del contendere sulle quali si passa sempre sopra assai velocemente: eppure, in una recente intervista, uno dei liceali appartenenti al collettivo studentesco ha accennato, fra l’altro, alla necessità di un rinnovamento radicale della didattica e all’auspicato aggiornamento dei libri di testo; che, in verità, non sarebbero argomenti irrilevanti. Ma a chi interessano davvero?
Alla base di tutto c’è una mancanza di dialogo fra generazioni, generata dalla fragilità degli adulti incapaci di incarnare il limite che i giovani devono rispettare e il conseguente senso di smarrimento degli adolescenti i quali, non avendo trovato un nemico con cui confrontarsi, si sentono messi sotto scacco: artificialmente inebriati dalla rivoluzione digitale, amaramente delusi dal rapporto con la realtà. Dove potranno andare, se non a cacciarsi nei guai? La loro solitudine in quest’epoca pare assoluta e lancinante, perlomeno nella minuscola parte di mondo che ci ospita: sottrarre a un adolescente lo spazio della dialettica, lusingandolo quando dovresti contrastarlo o reprimendolo nel momento in cui avrebbe bisogno di rafforzare la sua autostima, è come tagliargli le ali, la peggiore delle sconfitte per un educatore.
Voi mi direte: allora non c’è speranza? Tutto il contrario. Proprio in un momento così difficile i ragazzi possono tirar fuori il meglio di sé stessi, a dimostrazione che la pianta umana non muore mai ed anzi è pronta a ricrescere sempre, dove meno te l’aspetti. Faccio un esempio concreto per dare sostanza alle mie parole. Alcuni di questi liceali del Tasso li conosco personalmente: sono quelli che vengono a fare i tirocini formativi alla scuola Penny Wirton (pomposamente chiamati Pcto: Percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento), insegnando la lingua italiana ai loro coetanei immigrati. Ultimamente ho presente un paio di studentesse della prestigiosa e tanto bistrattata scuola romana particolarmente attive, a una delle quali la scorsa settimana ho affidato un quindicenne camerunense abbastanza vivace, analfabeta nella lingua madre, di cui lei si è presa cura con straordinaria dovizia.
Mettendosi di fronte a lui come una specie di sorella maggiore, paziente nel segnalare i suoi errori, precisa nel correggergli la pronuncia ancora incerta, brava a incoraggiarlo per infondergli fiducia, sorridente, propositiva, contenta di accoglierlo, aiutarlo, farlo sentire a casa propria. Ci credete se vi dico che con queste due ragazze non ho mai parlato dell’occupazione che ha coinvolto il loro istituto? Ma come, le radio ne discutono, i giornali mi chiedono di scriverne, la televisione intervista i diretti interessati e io, che trascorro i pomeriggi insieme a loro, non entro nel merito della questione? La piccola professoressa ancora minorenne non aveva tempo da perdere nelle polemiche spicciole: era troppo impegnata a insegnare la sillabazione a Mohamed. E noi adulti, per nessuna ragione al mondo avremmo voluto perderci lo spettacolo che lei rappresentava.