Opinioni

Più risorse alle famiglie, un dibattito internazionale. Il vero passo oltre la crisi: tornare ad aumentare i salari

Pietro Saccò martedì 17 marzo 2015
​C’è un problema che affligge tutte le principali economie avanzate: le famiglie non stanno spendendo. Nonostante le banche centrali di Stati Uniti, Europa e Giappone abbiano messo a disposizione del cosiddetto "sistema" un’enorme quantità di denaro, i loro cittadini continuano a rimanere molto cauti quando si tratta di tirare fuori i soldi. Nella zona euro i consumi finali delle famiglie sono aumentati solo del 3,4% dal 2010; in Italia, Portogallo e Grecia la spesa è ancora sotto ai livelli di cinque anni fa. Anche in Giappone l’aumento della spesa delle famiglie negli ultimi cinque anni è un misero 3,5%. Negli Usa, che già vivono una ripresa formidabile, la spesa dei cittadini è cresciuta del 6% tra il 2010 e il 2014. Quindi dalle parti di Washington va appena meglio che altrove, ma non c’è nulla di entusiasmante, considerato che negli anni prima della crisi il ritmo medio di aumento era il doppio. È un problema grosso, questo della spesa che manca, perché i consumi finali delle famiglie rappresentano, quasi ovunque, il principale motore del prodotto interno lordo: dipende dalle spese dei cittadini circa il 60% del Pil europeo e giapponese e quasi il 70% di quello degli Stati Uniti. La debolezza dei consumi sta quindi frenando la crescita ovunque ed è la principale causa di quella deflazione che è diventata, negli ultimi anni, il principale nemico della ripresa delle economie occidentali.Sbaglieremmo, però, a prendercela con le famiglie, ad accusarle di essere ancora in preda a un panico da crisi che le spinge a mettere da parte il più possibile di ciò che guadagnano e alimentare, così, la crisi stessa. La gente in realtà non sta lasciando i soldi in banca, tanto che il tasso di risparmio – cioè la quota di reddito accantonata dalle famiglie – nella zona euro e nelle sue principali economie è ancora sotto i livelli del 2008, cioè prima del crollo di Lehman Brothers. Il fatto, e questo sta emergendo con sempre maggiore chiarezza in questo inizio del 2015, è che europei, americani e giapponesi guadagnano poco. Secondo gli ultimi dati di Eurostat, nella zona euro il reddito medio è cresciuto solo dell’1,5%, a 19.934 euro lordi l’anno, tra il 2010 e il 2013, con diversi paesi (Italia compresa) che ancora non hanno ritrovato i livelli di cinque anni fa. Nemmeno gli Stati Uniti ci sono riusciti: le entrate medie di una famiglia americana nel 2013 erano a poco meno di 52mila dollari, 600 in meno rispetto al 2010. E questo nonostante il prodotto interno lordo a stelle strisce nel frattempo sia salito di quasi il 9%. La questione è complicata e coinvolge, prima di tutto, le politiche monetarie non convenzionali delle banche centrali di Europa, Stati Uniti e Giappone: aumentare in maniera inedita la quantità di denaro in circolazione, per il momento, ha fatto crescere ovunque i guadagni della grande finanza, ha spinto ai massimi storici le Borse, ha tagliato il costo dei debiti pubblici ma non ha aiutato – o ha aiuto pochissimo – le famiglie a guadagnare di più. Non le famiglie medie, almeno. Il caso americano è davvero da manuale. La ripresa c’è ed è forte (il Pil è cresciuto del 2,2% nel 2014), il mercato del lavoro ha quasi raggiunto la piena occupazione, con un tasso di disoccupati sceso al 5,5%, ma nonostante si possa dire che il paese è ripartito le famiglie americane non stanno ricevendo nei loro bilanci mensili i benefici del Quantitative easing. Una situazione di questo tipo non può reggere a lungo se arriva la ripresa. Infatti in America è già troppo forte la pressione della crescita perché la famiglia media possa essere lasciata fuori dalla festa. La grande resa di Wal-Mart, in questo senso, può essere presa come l’inizio del riscatto dei "salariati": la gigantesca catena di supermercati da 487 miliardi di dollari di fatturato e 2,2 milioni di dipendenti a febbraio ha aumentato il salario minimo dei suoi addetti negli Stati Uniti, cioè mezzo milione di persone, portandolo da 8 a 9 dollari l’ora (e salirà a 10 l’anno prossimo). Gli analisti prevedono che questa mossa, coinvolgendo così tante persone, aprirà al rialzo dei salari minimi anche in altre grandi aziende e in altri settori dell’economia americana.
I lavoratori europei, invece, ancora aspettano. Quasi tutti. Sempre a febbraio in Germania, cioè la grande economia più in salute della zona euro, il sindacato dei metalmeccanici Ig Metall ha strappato un aumento di stipendio del 3,4% per i suoi iscritti. Nel Regno Unito, fuori dall’area della moneta unica, è stato direttamente il governatore della banca centrale Mark Carney ad avvertire le aziende: non provate a usare l’inflazione bassa come scusa per tenere gli stipendi bassi. E anche nel remoto Giappone, lontano ma di questi tempi così simile alla vecchia Europa, il primo ministro Shinzo Abe ha invitato gli imprenditori ad aumentare i salari. Il colosso Toyota ha già risposto all’appello, preparandosi a offrire ai dipendenti nipponici il maggiore aumento di stipendi da 13 anni. Alla periferia dell’euro il dibattito sugli aumenti è ancora debole. Da un lato perché lì la ripresa ancora latita, e poi perché molti dei paesi più deboli della zona euro devono ancora recuperare il ritardo di produttività – intesa come capacità di generare ricchezza da parte di imprese e lavoratori – accumulato negli anni che hanno preceduto la crisi. Per questo ora in Portogallo, in Grecia, ma anche in Spagna si parla più che altro di come fare salire il reddito minimo.
Si torna a parlare di introdurre un compenso minimo, per i settori non regolati dalla contrattazione nazionale, anche in Italia, dove l’anno scorso le retribuzioni contrattuali sono salite solo dell’1,3%, l’aumento più basso – secondo le serie storiche dell’Istat – dal 1982. Il governo ci sta lavorando. Alzare gli stipendi più bassi può servire anche ad alzare la pressione perché aumentino i redditi più alti, almeno lì dove c’è spazio per rialzi: cioè in quelle aziende che sono tornate a lavorare a pieni giri e che sono state capaci di recuperare produttività e di rimanere competitive nonostante le difficoltà. Così l’introduzione di un reddito minimo potrebbe aprire una fase "rialzista" anche per i redditi delle famiglie, dopo mesi in cui i rialzi hanno coinvolto solo le Borse. Magari arriverebbe quella risalita della spesa degli italiani - così preziosa per la ripresa - che gli 80 euro, a quanto pare, non sono riusciti a ottenere.