Illegalità, tweet, cannonate impossibili. Vergogna svelata, umanità urgente
Dopo i tweet, le cannonate. Non quelle in corso tra loro, tra i libici. Ma quelle impossibili: le nostre. Cannonate su persone inermi, ma colpevoli di emigrazione. Cannonate che abitano tweet e dirette social da anni, che esplodono in barzellette cattive e furibonde invettive, e corrono con le monumentali bufale che han fatto alzare e incattivire l’inusitato coro xenofobo che echeggia dall’Alpi al Canale di Sicilia. Ma non accadrà. Non può e non deve accadere. Deve piuttosto esserci una presa di responsabilità umanitaria, corale, senza tentennamenti, una volta tanto esemplare. Perché dovremmo prepararci solo ad aggiungere cannonate a cannonate, se avessero ragione Matteo Salvini e Fayez al-Sarraj. Se, cioè, davanti ai disperati di Libia, all’orda di «migranti, libici e terroristi» annunciata con enfasi, non ci fosse nessuna seria e generosa iniziativa euro-africana e ci fossero, invece, solo «porti chiusi».
Già. Porti chiusi. Lo slogan preferito di Salvini. Il ministro dell’Interno e faso-tuto-mi nel governo giallo-verde (Difesa, Esteri, Trasporti, Finanze, persino Presidenza... ) ha ribadito più volte a parole ciò che non sta scritto (come abbiamo acclarato su queste pagine) in nessun atto ufficiale, ma che a ogni “tragedia migrante” sventata nel Mediterraneo si realizza per le misteriose vie del potere che il segretario della Lega si è dato e che sino a ieri – negli ultimi giorni, per la verità, con sempre meno entusiasmo e più disagio – il Movimento 5 Stelle gli ha concesso: i porti italiani, appunto, «sono chiusi», anche se soltanto per richiedenti soccorso e asilo poveri e dalla pelle scura (per gli altri naturalmente no). Ho appena scritto “misteriose vie del potere”, ma da oggi lo sono un po’ meno. Ciò che oggi siamo infatti in grado di pubblicare, fatti e carte alla mano che il collega Nello Scavo (LEGGI QUI) ha verificato, disegna un quadro di decisioni politiche assunte senza trasparenza e senza legge, interna e internazionale. Un quadro pesante, tanto quanto i disumani respingimenti ciechi di richiedenti asilo compiuti in questi mesi dall’Italia. Respingimenti in maschera libica (cioè, a quanto va emergendo, per interposta e pilotata Guardia costiera libica) e in nome di una legalità proclamata, ma in realtà svuotata di sé. Sono umiliati gli alti princìpi del nostro civile ordinamento, sono invase – esse sì – le responsabilità di altre istituzioni da parte di un ministro dell’Interno propenso non solo, come si sa, a indossare giubbe e giubbetti dei diversi corpi dello Stato, ma anche a mettersi cappelli non suoi, persino quelli dei comandanti e capi di stato maggiore delle nostre Forze armate.
Contemporaneamente, negli ultimi giorni, il capo del governo che governa assai poco in una Libia che da otto anni come Stato non esiste più e non ha nemmeno ufficiali in grado di far funzionare la sua Guardia costiera (a quanto pare “commissariata” nei fatti immigratori da ufficiali italiani), ha annunciato che ottocentomila persone, cittadini libici e immigrati, alcuni pericolosi, starebbero preparandosi a fuggire verso l’Italia e l’Europa. Persone in fuga dalla guerra che nell’ex Jamairiya è tornata a divampare e che dunque non viene più combattuta a bassa intensità contro gli stessi poveri di cui sopra (i circa 65 mila immigrati attualmente tenuti nei “lager”), ma aperta anche contro i civili libici renitenti all’ingresso nelle milizie tribali, e sempre più apertamente, contro il comune senso di umanità. Se avessero ragione Salvini e al-Sarraj, non resterebbero, dunque, che le cannonate.
Che cos’altro con le logiche imperanti in Italia e in Europa, ma anche nella stessa Africa? Che cos’altro considerata l’indifferenza e il cinismo dei potenti del mondo? Solo le impossibili cannonate sugli inermi sembrano poter tenere insieme, con gli ovvi e fastidiosi effetti collaterali, il puzzle afroeuro- mediterraneo: guerra alla siriana in Libia, lager per profughi e migranti diventati contendibili, porti italiani chiusi, barconi stracarichi di uomini e donne e bambini lasciati alla deriva o andati a fondo, morti e dispersi, coscienze in subbuglio… E scandalo delle migrazioni senza regole e senza umanità rivelato nella sua tragica interezza. No, non può andare così. E si può metter la mano sul fuoco che nessun politico degno di questo nome e, soprattutto, nessun uomo o donna in divisa italiana si arrenderebbe a una simile follia.
Ma bisogna anche essere realisti. E mettere non la mano, ma gli occhi sul fuoco che divampa sulla sponda meridionale del Mare Nostrum. L’ultima volta che un allarme simile venne lanciato – dal ministro Alfano, ai tempi del governo Renzi – dalla Libia presero drammaticamente il largo verso nord a decine e decine e decine di migliaia. E poco dopo, quando al Viminale era già arrivato Minniti, scattò il piano di blocco della Libia “costi quel che costi” che si sviluppò in desolante contemporaneità con la prima campagna di criminalizzazione delle Ong umanitarie e che portò a stringere accordi assai onerosi coi “signori della guerra”. Capiclan, ribattezzati per l’occasione “sindaci”, ovviamente più che disposti a fungere da carcerieri ufficiosi e retribuiti (oltre che sfruttatori) delle persone “colpevoli” di reato di migrazione. E se al-Sarraj spara numeroni mentre il generale Haftar spara coi suoi cannoni e i capi delle altre milizie non stanno a guardare, si può essere certi che è perché sta preparando un supplemento di conto da pagare: politico, economico e militare. Usa i suoi stessi connazionali (come noto poco propensi a rischiare la vita in mare, e assai di più a riparare per un po’ nei Paesi vicini, Egitto e Tunisia) per ingrossare propagandisticamente le fila dei fuggiaschi. Profughi e migranti trattenuti in condizione terribili in Libia non sono infatti più di 65mila. Più o meno tanti quanti scapparono verso nord nel 2011, quando gli euroamericani fecero collassare il regime di Gheddafi.
Ma oggi ci sarebbero terroristi in gran numero, dice al-Sarraj. Mai visti, in realtà, terroristi rischiare la vita su fragili gusci che tentan la traversata del Mediterraneo. I pochissimi terroristi arrivati via mare e transitati per i centri italiani di identificazione sono – parola dei nostri 007 e degli altri inquirenti – personaggi “radicalizzati” e conquistati al jihadismo assassino strada facendo, dall’approdo in Europa in poi. Ma il rischio non può essere sottovalutato. Dunque, va evitato. Come? Come abbiamo suggerito più volte in questi lunghi e tragici anni e in modo pressante pochi mesi fa, unendo doveri di umanità e preoccupazioni di sicurezza e facendo eco alle voci sagge del mondo della cooperazione internazionale e ai promotori dei “corridoi umanitari” (Comunità di Sant’Egidio, Comunità evangeliche, Tavola valdese, Cei). Serve un grande ponte aereo e/o marittimo, e servono trasporti bene organizzati e protetti via terra. L’Italia, l’Unione Europea, l’Unione Africana, i potenti del mondo cooperino con le Agenzie Onu e organizzino il trasferimento rapido e sicuro fuori dalla Libia, in Europa e in Africa, di tutte le persone straniere a rischio lì trattenute. Le guardino in faccia. Le riconoscano.
Ne valutino la condizioni. Sono circa 65mila: in minima parte nei campi ufficiali (disumani secondo l’Onu) la gran parte in quelli “privati” (terribili, per ciò che testimonianze di scampati, filmati e reportage documentano). E, allo stesso modo, aiutino la popolazione libica sfollata. Ogni centesimo e ogni energia anche italiani siano spesi per questo. Non per armare di più i “signori della guerra” e per finanziare una politica di respingimenti ciechi (e “in maschera libica”) che ci sta portando dritti dritti a un’altra condanna dell’Italia per violazione della Convenzione europea dei diritti umani. Si chiudano così non i porti, ma la via marina irregolare e lo sterminato, gelido cimitero degli innocenti nelle acque tra il Nord Africa e l’Italia. Altro che tweet senz’anima e senza cuore, altro che cannonate. Bastano e avanzano quelle che fanno disastri di là dal mare.