Opinioni

Il direttore risponde. Ventisei anni, e gli occhi giusti

sabato 4 febbraio 2012
Caro direttore,
ho quasi 26 anni. Sono una di quelle giovani che giornali e statistiche si sono prodigati a definire come coloroi che «non studiano e non lavorano». Sono una di quelle su cui peseranno i pensionati di oggi e di domani, che non godrà della vecchiaia passata a badare i nipoti, che oggi non ha lavoro e alla quale è stata negata una prospettiva con qualche certezza. Sono una di quei giovani per cui tutti a parole stanno lavorando dentro e fuori dai palazzi della politica o della tecno-politica. Sono una di quei giovani a cui stanno facendo credere che non v’è certezza ora e non ci sarà domani. Allora la mattina mi sveglio, vado a prendere il metrò insieme a un’ondata di altri coetanei che si dirigono in università o al lavoro precario e male (o niente affatto) pagato. Vado piena di desideri, di una casa mia, di un lavoro più certo, di un matrimonio, di figli. Ed ecco il bivio, quello davanti al quale devo scegliere: prevale la crisi, la precarietà di oggi e il nulla del futuro oppure quel desiderio grande con cui la mia giornata inizia… sempre. C’è uno sguardo che mi accompagna in questa strada, quello dei nonni. Mai il vuoto dentro quegli occhi così carichi di storia. Ogni volta che ho guardato bene dentro quello squarcio di vita, ho visto il dolore della guerra vissuto con la certezza di chi sa che la realtà, anche quella, è data e ad essa siamo chiamati a rispondere. La certezza, ecco cosa portano ancora nelle nostre vite questi nonni. Hanno edificato ciò di cui adesso viviamo, mossi dal desiderio di costruire quando non c’era più nulla. Mi chiedo: cosa muove un uomo che non ha più niente, che ha vissuto un male carnale come le bombe, la fame e la morte, a impastare ancora il pane, a mettere il primo mattone sulle ceneri di ciò che fino al giorno prima era la sua vita? Solo la certezza che il desiderio di bene non sia un’idea irrealizzabile, ma il perno della propria vita che fa da fondamento alla città nuova che si sta costruendo. Quello sguardo non mi ha mai nascosto che un Altro ci dà questo desiderio, così come la realtà, qualunque essa sia. E allora ecco, da quel punto fermo posso ripartire anche io, giovane del 2012, così fluttuante in un mondo apparentemente senza confini e àncore. Quegli occhi pieni della carnalità della vita e di Chi ce la dona mi riportano a terra, attaccata a quello che c’è. C’è stato Uno, nella storia, che ha investito su ognuno di noi, il Mistero, facendosi carne, vivendo, morendo e resuscitando per noi. E il Mistero continua a investire su di me, scegliendomi. In ogni istante. E in ogni istante lasciandomi libera. Così anche io, che per il mondo faccio parte di una generazione senza futuro, sfiduciata e schiacciata dai fuochi incrociati dei poteri che si combattono tra i mercati e i palazzi, sono salvata da Colui che abbraccia tutto di me, sceglie tutto, investe su ciò che, inesorabile, emerge anche in questa realtà: il mio desiderio.
Anna Pelleri
 
Lei potrebbe essere mia figlia, cara Anna. E un po’ lo è. Prima di tutto perché io, che ho il doppio della sua età, ho avuto una madre e un padre capaci dello stesso sguardo e dello stesso grande e concreto esempio dei suoi nonni. E poi perché lei dice, con appena più maturità e un luminoso desiderio di vita e di pienezza, cose scomode e coinvolgenti come quelle che – a volte – decidono di dirmi le mie figlie.
Ma la verità, cara Anna, è che lei è una dei tanti nostri figli che i giornali fatti da quelli della mia generazione faticano a vedere e a riconoscere come protagonisti. Lei è informata, è motivata, è sfidata, è preoccupata, è preparata, è delusa, ma non è in alcun modo rassegnata e non fa l’indignata. Qualcuno molto più saggio di me li ha visti e detti proprio così – «né indignati né rassegnati» – i giovani che cinque mesi fa si sono riuniti a Madrid attorno al Papa per la Gmg 2011. Giovani che hanno trovato e ancora cercano, e che si misurano con il Mistero. Giovani che, come lei, sono capaci di grinta e di dolcezza. Che come lei, cara Anna, non hanno rabbia, ma hanno Cristo. Sperimentano la precarietà e ne sono messi alla prova, ma non accettano di vivere precariamente… Perciò non sbraitano e non disperano, e riescono a tenere bene aperti gli occhi su quella grande guerra – cito lei – di «poteri che si combattono tra i mercati e i palazzi» che abbiamo cercato di far capire un po’ meglio con le rapide istantanee e le ragionate analisi pubblicate domenica scorsa alle pagine 2 e 3 di Avvenire.
Vorrei, insomma, dirle che mi parla e, mi colpisce la sua voglia di «ripartire dagli occhi dei nostri nonni» cioè dallo sguardo di chi sa l’essenziale e non si sgomenta. Vorrei davvero dirle che mi commuove e mi convince la sua consapevolezza di essere libera, carica di problemi, di doveri, di desiderio eppure, in questo mondo tutto da faticare, inesorabilmente amata e già salvata. Vada avanti, cara Anna, segni la strada, non ceda alle nebbie, abbia cura della luce. È tutta sua la luce che porta, eppure è anche nostra.
  MarcoTarquinio