Burkini e altri abiti. Veli, ferite e libertà
«Le persone si adattano a circostanze anche molto sfavorevoli, pur di sopravvivere. Ma la capacità di adattamento delle persone può portare a trarre conclusioni sbagliate, anche in termini di politiche sociali ed economiche». Queste parole di Amartya Sen, premio Nobel per l’economia, colgono un aspetto fondamentale del rapporto tra libertà e benessere, e possono aiutare in questi giorni di discorsi, e di molte chiacchiere, sui burkini e sul velo delle suore. Quando vediamo un comportamento di una persona, ci dice Sen, per capire il suo reale benessere o malessere, occorre conoscere il set di opportunità a sua disposizione, dobbiamo conoscere le alternative alle quali rinuncia e potrebbe rinunciare. La vera misurazione del benessere e delle libertà sono le scelte che potremmo fare e non facciamo. Una persona svantaggiata, povera e sfruttata può essere felice, perché le condizioni sociali e ideologiche l’hanno resa soddisfatta della propria sorte, e in qualche modo si è adattata alla vita che conduce. Ma sarebbe inopportuno, osservando una persona sfruttata felice, giungere alla conclusione che lo sfruttamento rende felici, o che sia uno stato desiderabile. Il benessere e le libertà manifestate oggi dalla scelta di una donna di indossare un burkini sono profondamente diverse se la scelta di chi lo indossa è tra burkini e altri costumi da bagno o tra burkini e non andare in spiaggia. E per capire le libertà e le opportunità di una suora che scende in spiaggia con l’abito dovremmo, anche qui, guardare ad altre cose, scoprendo, ad esempio, che quasi sempre le suore in spiaggia ci vanno per stare con i loro ragazzi dei campi estivi. E se e quando vanno per fare un bagno spesso decidono tranquillamente di indossare un costume. Lo sappiamo. Lo sanno le donne, dovrebbero saperlo tutti. Ma lo dimentichiamo troppo spesso, perché decidere, parlare, filosofare sul corpo delle donne e i loro vestiti è sempre stato un rito fondamentale della gestione del potere, in una società che è sempre stata una faccenda maschile (e ancora lo è molto, troppo). Al di là delle astratte dichiarazioni di principio, nelle scelte, nelle carriere, negli stipendi, nelle opportunità, uomini e donne sono ancora troppo diversi per rispetto, dignità, diritti e libertà. Con l’eccezione dell’ultimo secolo in Occidente, sono stati sempre i maschi a decidere come le donne dovevano vestire e come dovevano usare il loro corpo. Purtroppo anche i dibattiti di questi giorni sul divieto di burkini in Francia continuano a essere molto spesso dialoghi tra maschi sulle donne, che ripresentano gli stessi vizi di sempre. Non si rispettano le donne musulmane quando si discute sui loro burkini in spiaggia con grande ignoranza storica e religiosa della donna e del corpo nell’islam (e in molte altre culture); e non si rispettano le suore quando si mostrano foto dei nostri bagni con l’abito. E quando non si rispettano quelle donne musulmane, quelle donne cattoliche suore, non si rispettano le donne tout court. Non si rispetta nessuna donna, e quindi non si rispetta nessuno.
Lo stesso velo può nascondere libertà e felicità molto, radicalmente, diverse. Nella nostra cultura occidentale il velo ha rappresentato, e rappresenta, molte cose. Le nostre bisnonne non erano libere di non posarlo sul capo quando andavano in chiesa, alcune suore oggi decidono liberamente di indossarlo sempre, altre (come me) ogni tanto, altre ancora mai. Le suore indossano il velo come segno di consacrazione e richiamo alla presenza di Dio, e lo fanno per scelta, peraltro adattandosi ai contesti in cui vivono. Le suore del mio Istituto che vivono in Africa hanno degli abiti coloratissimi. In Vietnam vestono pantaloni, secondo i costumi del luogo. L’abito deve essere un segno che parla di Dio, e se questo segno non viene colto, allora quell’abito non ha significato e non si usa. Gli esseri umani hanno una quasi infinita capacità di adattarsi alle circostanze sfavorevoli della vita, e per sopravvivere arriviamo quasi sempre a convincere noi stessi e agli altri attorno a noi che in fondo la condizione in cui siamo è anche buona. Gli uomini hanno questa capacità, ma noi donne l’abbiamo di più, perché per non morire abbiamo dovuto sviluppare nei millenni una infinita capacità di adattarci a vestiti, veli, abiti, che gli uomini avevano deciso che noi dovevamo o non dovevamo indossare. A volte ci siamo adattate anche bene, e abbiamo trovato anche una certa felicità, non sempre una autentica libertà. Le felicità sulla terra sono molte, non tutte sono libere. Ma nel mondo delle donne c’è più libertà di quella che molti maschi riescono a vedere, soprattutto nel nostro rapporto col corpo, con i vestiti, con i veli. Quando si parla del corpo delle donne e dei loro vestiti, soprattutto se a parlarne sono uomini, ci sarebbe bisogno di un 'minuto di raccoglimento', per fare prima memoria delle infinite ferite che quei vestiti e quei veli hanno coperto e coprono. E dopo, solo dopo, iniziare a parlare, e sempre a bassa voce e in nostra compagnia. Altrimenti non solo si dicono sciocchezze, ma si continua a fare violenza sui nostri corpi, sui nostri veli. Alessandra Smerilli Una breve nota dedicata a quanti non conoscessero bene la professoressa Smerilli, preziosa collaboratrice di 'Avvenire' . L’economista Alessandra Smerilli, suora salesiana, è docente stabile all’Auxilium di Roma. Insegna anche alla Lumsa ed è 'visiting professor', negli Usa, all’Università di Philadelphia. Fa parte del Comitato scientifico e organizzatore delle Settimane sociali dei cattolici italiani. (mt)