Debito pubblico. Vedere la montagna del debito è il primo vero passo per scalarla
Caro direttore, un debito pubblico così elevato come quello italiano è un problema: un grande problema. Per questo fa bene 'Avvenire' a stimolare una discussione approfondita sul tema. Per questo, si parva licet , riteniamo che bene abbia fatto l’Istituto Bruno Leoni a portare il suo debt clock nelle principali stazioni ferroviarie di Milano e Roma, per riaccendere l’attenzione dell’opinione pubblica sul tema. Abbiamo un debito pubblico prossimo al 132% del prodotto interno lordo sul quale paghiamo ogni anno circa 65 miliardi di euro di interessi. Più di ogni altro Paese dell’Unione (la Germania e la Francia ne pagano più o meno 40, la Spagna 30). Quasi il 4% del Pil e questo nonostante tassi di interesse prossimi, grazie alla Banca centrale europea, allo zero.
Noi italiani abbiamo molti pregi, ma tendiamo ad avere poca memoria: nel 2011, il nostro Paese ha attraversato una crisi molto grave, che ci ha costretti a scelte dolorose (come la criticatissima riforma Fornero). Che cos’era successo? Molto semplicemente, i nostri creditori avevano sviluppato qualche dubbio sulla nostra capacità di restituire loro quanto ci avevano prestato. Questi dubbi erano dovuti in larga misura ai 'fondamentali' del Paese, ritenuti fragili: sono vent’anni che l’economia italiana, in buona sostanza, ristagna. Tutt’oggi il reddito pro capite resta lontano dai valori pre crisi. A ciò si aggiungeva la preoccupazione per uno stato di forte incertezza politica. L’una e l’altra cosa sono naturalmente esacerbate dall’elevato debito pubblico: tanto maggiore è il debito e tanto più si avverte, infatti, lo scetticismo dei creditori sul servizio del debito stesso. Perché l’Italia ha oltre duemiladuecento miliardi di debito, poco meno di 40mila euro a testa? Negli anni Cinquanta del Novecento, il nostro era un Paese poco indebitato e con valuta stabile. Quegli anni videro uno straordinario dinamismo imprenditoriale, trasformando rapidamente l’Italia in una potenza industriale. Da allora, però, per ragioni politiche più o meno comprensibili, più o meno nobili, la spesa pubblica si è dilatata. Quasi tutti i Paesi occidentali hanno vissuto una fase di espansione della spesa negli anni Settanta, come l’Italia, ma quasi tutti si sono posti il problema di riequilibrare i conti, negli anni Ottanta. Questo in Italia non è avvenuto.
Nel dibattito pubblico circolano, in questi giorni, alcune tesi un po’ curiose. Qualcuno se la prende con Beniamino Andreatta, l’economista-politico che fu l’artefice del cosiddetto 'divorzio' fra Banca d’Italia e Tesoro. Con questa formula icastica s’intende la revoca dell’obbligo «di acquisto residuale in sede d’asta di Bot». Nel 1975, infatti, la Banca centrale si era impegnata ad acquistare alle aste tutti i titoli non collocati presso il pubblico, finanziando quindi gli ampi disavanzi e, di fatto, calmierando i tassi d’interesse sul debito. Con il 'divorzio', si restituì indipendenza all’Istituto di emissione e si costrinse lo Stato a dipendere dal giudizio dei sottoscrittori privati, quando doveva indebitarsi. L’obiettivo, per citare Andreatta, era farla finita con le «confortevoli abitudini del passato» e «cambiare il regime della politica economica». Escludiamo che Andreatta, erede della tradizione del cattolicesimo sociale, coltivasse il sogno di tornare a livelli di spesa pubblica 'ottocenteschi'. Si era però persuaso che finanze pubbliche del tutto fuori controllo avessero effetti deleteri. Non riteneva che nascondere la polvere sotto il tappeto fosse una strategia lungimirante. Gli era chiaro che finanze pubbliche fuori controllo si traducono, presto o tardi, in inflazione e cioè nella più odiosa delle imposte a carico dei più deboli: dei pensionati, dei lavoratori dipendenti, dei contribuenti a reddito fisso. Una inflazione che a cavallo fra gli anni 70 e 80 aveva superato il 20% colpendo in particolare proprio i ceti più umili. Non esistono soluzioni prive di costo a questo mondo e Beniamino Andreatta lo sapeva bene.
Il debito pubblico italiano non è dunque il frutto di una scelta che fu, come si dice, niente altro che la scelta di «un buon padre di famiglia». Ma solo di una spesa corrente elevata e crescente e soprattutto di qualità quando non bassa molto disomogenea. Questa del resto è l’esperienza di tutti gli italiani. Soprattutto di coloro che di uno Stato efficiente avrebbero bisogno. La spesa pubblica è elevata, ma la qualità dei servizi di cui fruiamo è molto bassa. La politica ama l’idea per cui spendere molto significa spendere bene. Aumentando le uscite, per dirla piatta, aumenta la platea dei potenziali beneficiari delle stesse. Affinché un certo servizio, come la sanità o l’istruzione, sia un servizio di qualità, non basta che la spesa sia elevata. Se l’organizzazione del servizio stesso è clientelare, se la concorrenza non costringe i diversi enti che forniscono il servizio a provare continuamente a migliorarlo, se il merito non conta nel reclutamento del personale, difficilmente i contribuenti riceveranno value for money.
Da più parti si fa notare che la spesa pubblica italiana non è la più elevata d’Europa. Ma ha scarso significato comparare la spesa pubblica dell’Italia di oggi con la spesa pubblica della Germania di oggi: perché la velocità di crociera del Pil tedesco è stata, negli ultimi quindici anni, molto diversa. Il lettore pensi alla spesa pubblica esattamente come pensa a qualsiasi genere di spesa che una famiglia possa sostenere. Se una famiglia ha più reddito a disposizione, potrà comprare un’automobile più grande o fare vacanze in una località più esotica. Ma che penseremmo di un padre di famiglia che, vedendo ridursi il suo reddito, non provi a ridurre le uscite? Non bisogna confondere retorica e realtà: in molti hanno parlato di ridurre il perimetro dello Stato, quasi nessuno lo ha fatto. Nell’ultimo ventennio l’Italia ha sicuramente visto periodi di aggiustamento macroeconomico anche significativo. Ma poi sono invariabilmente seguiti anni in cui i frutti di quegli sforzi sono stati colpevolmente dissipati.
Il rapporto fra spesa pubblica e prodotto accenna a flettere solo con estenuante lentezza, se tutto va bene attestandosi nel 2020 più o meno lì dov’era nel 2007 e almeno un punto sopra il valore raggiunto nel 2000. Non è colpa degli interessi sul debito: anzi questo avviene nonostante che nel corso di questo quasi ventennio gli interessi sul debito pubblico in rapporto al prodotto si siano ridotti di 2,5 punti percentuali. A un debito elevato si possono dare risposte liberali, che vanno nel senso della crescita e della riduzione della spesa pubblica, o socialiste, che vanno nel senso dell’inasprimento della pressione fiscale. Noi preferiamo le prime, ma la priorità oggi è riconoscere l’esistenza del problema. Non basta ignorarlo, purtroppo, per risolverlo.
* Economista
** Economista, direttore generale Istituto Bruno Leoni
(ottavo intervento di una serie)
Questo articolo fa parte del dibattito sul tema del debito pubblico che continuerà a più voci e con diverse posizioni.
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