Il direttore risponde. Vecchie e nuove leggende nere (e rosse)
Caro direttore,
i comunisti mangiavano i bambini italiani? Li deportavano in Urss per istruirli al "socialismo" ovvero per farne delle cavie? Domande che riecheggiano leggende propagandistiche che ebbero, soprattutto nell’immediato dopoguerra, qualche spazio. A ritornarci su ci ha pensato Stefano Pivato, rettore dell’Università di Urbino, con un documentato volume («I comunisti mangiano i bambini.
Storia di una leggenda») presentato nei giorni scorsi alla Biblioteca del Senato dall’autore e da un eccezionale cast di intellettuali: Sergio Zavoli, Giuseppe Vacca e Andrea Riccardi. A dire il vero, neppure quelli che a suo tempo avrebbero potuto beneficiare di simili favole, i democristiani, ritennero serio il farne uso, come ricorda l’autore dell’opera. Per Andreotti «espressioni come quelle furono proprie di qualche imbecille...». Mentre per Forlani, che fu anche a capo della sezione propaganda della Dc, «lo slogan non apparteneva alla cultura» dello Scudocrociato. Eppure, racconta Pivato, «nato fra gli anni Venti e Trenta in occasione delle carestie in Unione Sovietica, il racconto sui comunisti divoratori di bambini si trasferisce in Italia in occasione delle false deportazioni dei bambini siciliani in Russia».
Vacca si è posto il quesito del perché l’espressione sia tanto a lungo sopravvissuta e ne ha trovato la ragione nell’uso politico che certuni fanno della storia, mentre Riccardi si è rifatto a Marc Bloch, teorico dell’insorgenza delle false notizie che trovano nella società in cui si diffondono «un brodo di cultura favorevole». E in quell’errore «gli uomini esprimono inconsciamente i propri pregiudizi, gli odi, i timori, cioè tutte le loro forti emozioni». Pivato, in conclusione, tra l’altro ha osservato come tali leggende hanno «rafforzato» la conventio ad excludendum: i comunisti sempre fuori dal governo. Rafforzamento assai limitato, però, giacché il mancato ingresso dei comunisti al governo poggiava su fattori ben più determinanti, quali il contesto internazionale e le sue regole ferree, allontanandosi dalle quali poteva accadere di tutto.
Conversando con Giuseppe Vacca a conclusione dell’incontro ho ricordato che, con riferimenti certamente meno truci dell’antropofagia, ognuno cercava consensi con sue... leggende: basti pensare ai «forchettoni», espressione che doveva identificare i dc alle cui file, per converso, aderivano però milioni e milioni di lavoratori dei campi, delle fabbriche, delle botteghe artigiane con redditi da sopravvivenza.
Ovvero alla «legge truffa», che prevedeva un premio in seggi (che non scattò perché mancarono appena 70mila voti) alla Camera dei deputati e solo se la coalizione avesse già conseguito la maggioranza assoluta nelle urne. Quando in effetti una qualche "truffa" può esserci stata: ma all’interno dei seggi elettorali, poiché è difficile spiegare come nel 1953 i voti nulli rispetto al 1948 siano raddoppiati non al Senato, dove il dato rimase più o meno stabile, ma alla Camera (con elettori peraltro più giovani e presuntivamente più avveduti) dove appunto poteva scattare il famoso premio.
Eppure a tutt’oggi il termine resiste per identificare quella legge. Comunque questi slogan avevano una loro trasparenza, nel senso che non era difficile trovare argomenti per confutarli. Oggi, invece, la delegittimazione dell’avversario ha assunto forme più silenti, insidiose e sofisticate, rendendo i convincimenti del cittadino più aggredibili.
Giorgio Girelli