L'altro ieri a Parigi l’Europa dei 47 (quella del Consiglio) ha preso una decisione non irrilevante:
è stato respinto, in sede di Commissione Affari Sociali, il progetto che apriva a una legalizzazione dell’«utero in affitto» nei Paesi membri. È il secondo "alt" nel Vecchio Continente alla maternità surrogata, dopo la condanna di questa pratica, votata a dicembre dal Parlamento di Strasburgo che è espressione dell’Europa dei 28 (quella dell’Unione).Dunque, qualcosa nel fronte che preme per la liberalizzazione dell’«utero in affitto» sembra incrinarsi. Eppure quasi non se ne legge nei media, almeno su quelli italiani. Viene da domandarsi: e se la decisione di Parigi fosse stata di segno opposto? Se dall’Europa fosse venuto un via libera alla maternità surrogata, forse i giornali ce lo avrebbero ampiamente raccontato: ci avrebbero illustrato con letizia e dovizia di particolari il nuovo passo avanti verso il "progresso", cioè il riconoscimento della più assoluta libertà individuale di "volere" un figlio? Libertà di avere un figlio comunque, da chiunque, e indipendentemente da eventuali impedimenti posti dalla natura – che, come si sa, è un po’ oscurantista.Invece accade che, sia pure come l’altro ieri con il margine di un solo voto, l’Europa rifletta e resista. Non ci sono, a protestare, soltanto i "soliti" cattolici, ma anche un agguerrito fronte femminista, che a Parigi a febbraio ha lanciato in Parlamento una Carta universale contro la maternità surrogata. Ieri sotto alla sede della Commissione Affari Sociali del Consiglio d’Europa, vicino all’<+CORSIVOIDEE>Arc du Triomphe<+TONDOIDEE>, le donne femministe e quelle cattoliche si sono scambiate dei fiori. Pure nel mantenimento di tutte le differenze di visione, un segnale: si combatte per qualcosa d’importante, insieme.Qualcosa che attiene alla maternità e alla vita dell’uomo, al cuore stesso della convivenza sociale. Eppure i media continuano a preferire la narrazione soddisfatta di famiglie con due padri e nessuna madre; il compiacimento zuccheroso nel mostrare come l’«amore» per il figlio, comunque ottenuto, giustifichi ogni operazione. Si sorvola sul fatto che una donna che partorisce e dà via un bambino lo fa, nella quasi totalità dei casi, per bisogno economico. Tutto è sacrificato a quella "dittatura del desiderio" per cui pur di avere un figlio – essendo maschi, o sterili, troppo vecchi per concepire – è lecita ogni cosa.In questo senso, un titolo sulla prima pagina del "Corriere della sera" ieri ci ha fatto sussultare. «Non è giusto trasformare ogni desiderio in diritto», scrive Claudio Magris. Dove in un’ampia riflessione, citando Pasolini, Vacca, Tronti, Hirschman e Freud, Magris sostiene fra l’altro che il protagonista dell’attuale dibattito sul generare non è «il desiderio della coppia omo o eterosessuale, bensì il bambino, che comunque nasce da un uomo e da una donna».Abbiamo sussultato, a quel titolo, perché era quello che avrebbe potuto pubblicare questo giornale, così come in effetti ha fatto, da diversi anni a questa parte. La «dittatura del desiderio» è un tema che ci è caro, almeno dai tempi del referendum del 2005 sulla fecondazione assistita. Quando già si poneva la possibilità di concepire un figlio da donatori anonimi di gameti: perché cosa importa il diritto del figlio a conoscere il padre e/o la madre da cui proviene, la storia di cui è parte, a fronte della prepotenza del desiderio di generare, comunque.Siamo contenti che intellettuali del calibro di Magris si tirino fuori con forza dalla corrente del pensiero unico, dal sentimentalismo che ammanta l’individualismo oggi venerato e idolatrato e un dilagante mercatismo. «Non è giusto trasformare ogni desiderio in diritto» e in «consumo», caspita, è un pensiero importante quello che si affaccia apertamente sul primo quotidiano italiano. Che trova eco, più nascosta, sulle pagine del "Manifesto" dove Mariangela Mianiti martedì 15 marzo ha ragionato in modo rigoroso e asciutto, e perciò sanamente spigoloso, sul «mercato dei corpi».E una consapevolezza crescente che accompagna ciò che è accaduto a Parigi e a Strasburgo, al dibattito interno al femminismo, al domandarsi di tanti uomini e donne se davvero è un bene gestire la maternità con un contratto, e il figlio come un prodotto da consegnare o da acquistare; se davvero è ragionevole stabilire per legge che certi figli hanno due padri, e di madri, nessuna. E che per altri figli il padre è deliberatamente cancellato. Sono domande che, stando ai sondaggi, in Italia, si fa tra sé una parte sempre più grande dell’opinione pubblica. Anche se tanti se la fanno timidamente, a bassa voce, sotto alla spinta di una rappresentazione mediatica della realtà che deliberatamente indica un sola possibile direzione: quella del desiderio individuale eletto a unica norma, nel quadro di un luminoso, irreversibile "progresso" dal dato di natura e della regolazione contrattuale e commerciale dell’affare umano. La dittatura del desiderio e del mercato, appunto: un sogno inquietante, da cui ci vogliamo risvegliare. Ed è possibile.