Come dare torto al presidente della Corte Costituzionale, quando lamenta i tanti inviti e le ripetute sollecitazioni, sistematicamente inascoltati dal Parlamento, ad aggiornare e integrare la nostra legislazione, per renderla sempre più aderente ai principi della Carta fondamentale? Come non concordare con il suo richiamo sulla natura delle «esortazioni» provenienti dalla Consulta, che non possono essere trascurate da deputati e senatori, come se si trattasse di un «mero auspicio», perché esse vanno piuttosto accolte come un doveroso sprone «a intervenire», smettendola di fare orecchie da mercante? Davvero è impossibile non assentire all’autorevole monito arrivato ieri dal professor Franco Gallo, quando ha ricordato che le Camere rappresentano, in un corretto equilibrio istituzionale, «il naturale interlocutore» della Corte.
È abbastanza comprensibile, inoltre, che nell’esemplificare alcune prese di posizione contenute in altrettante sentenze, e regolarmente rimaste lettera morta, il numero uno della Consulta abbia pescato in qualche modo nella casistica più recente, toccando materie rese di particolare attualità dalla contingenza politica e dalla pressione congiunta di mass media e ben definite lobby. Eppure, nella giurisprudenza più consolidata di Piazza del Quirinale, non mancano altri esempi non meno vistosi di antica noncuranza, che hanno prodotto effetti nefasti sulla vita sociale e inferto vulnus dolorosi a vastissime categorie di cittadini. Certamente, per citare una vicenda che abbiamo tante volte richiamato su queste colonne, un grande tributarista come il presidente Gallo non potrà non ricordare almeno due sentenze storiche sul trattamento fiscale dei redditi familiari: la prima, la numero 179 del 1976, che bocciò il 'cumulo dei redditi' previsto dalla riforma Visentini, la seconda, la 76 del 1983, che ribadì l’obbligo della tassazione separata dei redditi dei coniugi.
Nel primo caso, la Corte sancì chiaramente il principio che l’imposizione è personale (desumendolo dall’articolo 53 della Costituzione), ma espresse «l’auspicio» che ai coniugi fosse data la facoltà di scegliere un differente sistema di tassazione, per agevolare «la formazione e lo sviluppo della famiglia», con un richiamo quasi letterale all’articolo 31 della Carta, dove si stabilisce che la Repubblica deve tutelare «con misure economiche ed altre provvidenze» la famiglia e i suoi compiti. Che ne è stato di quel 'pro memoria'?
Passarono pochi anni (ma da allora ne sono trascorsi inutilmente altri 30!) e la Consulta fu investita di una delle più clamorose ingiustizie del sistema impositivo italiano: il trattamento delle famiglie monoreddito. In quella occasione i giudici non si limitarono agli auspici. Ma mentre ribadirono che il regime di tassazione separata «è imprescindibile », scrissero a chiare lettere che «spetta allo stesso legislatore di apprestare rimedio alle sperequazioni che da tale sistema, rigidamente applicato, potrebbero derivare in danno della famiglia nella quale solo uno dei coniugi possegga reddito tassabile». Quella volta il rinvio all’articolo 31 e al principio del favor familiae fu preciso ed esplicito. La Corte entrò perfino nei dettagli, suggerendo o la predisposizione di «un sistema alternativo» di imposizione da affiancare «in via opzionale » a quello vigente, oppure una ristrutturazione di oneri deducibili e detrazioni», «per meglio adeguarli all’esigenza medesima».
Ma anche quella volta la sordità di forze politiche, istituzioni e, persino, sindacati non venne minimamente scalfita. Pretendere dunque che, prima di adeguare, come si sollecita ora, le norme sulle unioni di fatto dello stesso sesso, si cominci a rimediare alle ingiustizie ai danni delle unioni di diritto, le famiglie fondate sul matrimonio, ci sembra francamente il minimo.