Opinioni

L’ergastolo ostativo costituisce una pena senza senso. L’uomo, non il suo errore

Marco Pozza giovedì 12 luglio 2012
Come uomini-ombra che campeggiano statuari ai bordi di un binario morto. Con il forte rischio di scambiare la luce del sole – che da anni contemplano dal chiuso di una cella di tre passi per due – con quella fioca dell’abat-jour che hanno lasciato nella loro stanza da letto il giorno dell’arresto. Ergastolani loro ed ergastolane pure le loro donne: perché l’ergastolo, soprattutto quello ostativo che non concede benefici o permessi premio, è una morte pagata a rate da ambedue le parti. In questi giorni, vari libri e studi specialistici stanno riportando l’attenzione sulla validità o meno di continuare a insistere con questa pena, già da tempo abbandonata da altri Stati europei. Ricercatori e studiosi di fama internazionale hanno ampiamente mostrato come la mente umana si evolva per tutta la vita, con la possibilità di essere continuamente stimolata e orientata. L’evoluzione perpetua della mente chiede, dunque, di essere tenuta in considerazione quando viene stabilita una pena per il reato, perché una punizione è giusta solo quando tende al recupero e al reinserimento sociale di una persona. Nei bassifondi delle galere s’impara presto a comprendere il male senza mai giustificarlo; la comprensione, però, ammonisce contemporaneamente a condannare fermamente la colpa cercando di recuperare con la carità il colpevole. Se il senso della detenzione e della pena – come recita la Costituzione Italiana all’articolo 27 – è di «tendere alla rieducazione del condannato», allora l’ergastolo è una contraddizione in termini. Perché calarsi dentro l’abisso misterioso di questi uomini e reinsegnare loro a camminare, a scrivere, tante volte addirittura a parlare, se laggiù non s’avverte un barlume di luce nella loro vita? Che senso hanno gli sforzi compiuti da uomini e donne che quotidianamente s’affannano per scommettere sull’uomo che ha sbagliato, se poi non ci sono chance da giocarsi? Perché chi affronta la sfida di riabilitare un’anima dentro un istituto di pena deve sospettare d’essere il sommistratore di un semplice palliativo che aiuta ad ammazzare un tempo "a disposizione" eppure indisponibile? Emanuele era poco più che adolescente quando fu condannato all’ergastolo ostativo. Ora, dopo più di vent’anni, a guardarlo negli occhi si vede, s’intuisce che quella pena si stia abbattendo su di un altro uomo, contro un Emanuele che è cambiato, s’è sviluppato, ha coscienza del male fatto e ne ha preso le distanze. Probabilmente questa persona non c’entra più nulla con il crimine che commise. E il perdono che ha ricevuto gli fa molto più male della condanna inflitta, perché non gli ha ancora permesso di trovare una giustificazione al male compiuto. Abrogare l’ergastolo ostativo non significa cancellare la responsabilità di una colpa accertata, ma semplicemente permettere alla speranza di poter continuare a fiorire anche su un binario morto della nostra umanità.Perché oscurare per sempre la parola "speranza" dal vocabolario di queste persone è un po’ come costringere un bambino a imparare un mestiere e, poi, lasciarlo chiuso dentro l’angustia della sua camera. Vivrà, crescerà lo stesso e abbellirà pure la sua cameretta fino a sentirsi quasi bene, ma un giorno sospetterà di essere un morto che cammina. Per rimanere in piedi dentro queste vite segregate, c’è un solo segreto: mettersi in ginocchio, come disse un giorno don Oreste Benzi, dal momento che Dio non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva. L’ha gridato Ezechiele, il profeta. Non esiste la predisposizione genetica al delitto, esistono persone che vengono influenzate a compiere delitti. Ecco perché l’uomo – anche il più "cattivo" – non potrà mai essere il suo errore: rimarrà un frammento di Bellezza deturpatasi da restaurare per riportarla allo splendore originario. Lo splendore della Creazione.