Opinioni

La sfida. Un'Italia vecchia è tre volte debole: perché c'è bisogno di nuovi cittadini

Alessandro Rosina venerdì 23 agosto 2024

Il nostro paese soffre di tre grandi problemi che frenano lo sviluppo sostenibile e inclusivo, ponendoci in condizione di svantaggio competitivo rispetto alle altre economie mature avanzate.

Il primo è quello degli squilibri demografici. Tutto il mondo sta andando verso una natalità insufficiente a garantire un equilibrio nel rapporto tra vecchie e nuove generazioni. Esiste, in ogni caso, un’ampia differenza tra un paese come la Francia, che per lungo tempo ha mantenuto un numero medio di figli per donna vicino a due (recentemente sceso a 1,7) e l’Italia che da quarant’anni ha un valore inferiore a 1,5 (recentemente sceso a 1,2). Ne consegue che se la Francia si trova come l’Italia con una popolazione anziana in spiccato aumento, grazie alla longevità, può però contare su una forza lavoro potenziale che rimane solida, mentre quella italiana va verso una drastica riduzione per l’entrata in età attiva di generazioni via via sempre meno numerose. Nel suo intervento al Meeting di Comunione e liberazione, in corso a Rimini in questi giorni, il Governatore della Banca d’Italia, Fabio Panetta, ha affermato che nei prossimi quindici anni il numero di persone in età lavorativa si ridurrà di quasi 5 milioni e mezzo di unità. “Questa dinamica”, ha poi aggiunto, “rischia di avere effetti negativi sulla tenuta dei sistemi pensionistici, sul sistema sanitario, sulla propensione a intraprendere e a innovare”.

Il secondo grave problema è quello dell’enorme debito pubblico. Anche questo ben messo in evidenza dal Governatore, il quale ha sottolineato come tale macigno ci imponga una spesa per interessi equivalente a quella per l’istruzione. Si tratta di risorse sottratte agli investimenti sulle nuove generazioni e sulla spesa sociale in generale.

Il terzo problema è quello delle fragilità formative e del debole percorso di transizione scuola-lavoro. L’Italia è uno dei paesi europei maggiormente avvitati in una spirale di degiovanimento sia quantitativo che qualitativo. Il tasso di dispersione scolastica (esplicita e implicita) continua ad essere sensibilmente più elevato rispetto alla media europea e l’incidenza dei NEET, i giovani usciti dalla formazione ma senza un impiego, tra le più alte.

Un’immigrazione regolare e ben gestita aiuta a rispondere, quanto meno a rendere meno accentuati, questi tre problemi. La popolazione residente in Italia è pari circa a 59 milioni di abitanti. Secondo le previsioni Istat, per le dinamiche in corso, siamo destinati a metà di questo secolo a scendere sotto 55 milioni. Ma se contassimo solo i cittadini italiani già ora saremmo poco più di 53 milioni e mezzo. Senza immigrazione la popolazione anziana continuerebbe comunque a crescere in modo sostenuto, ma avremmo molti meno giovani nelle scuole e nelle aziende. Tra gli under 18 - la fascia a cui si rivolgono le proposte di riforma della legge sulla cittadinanza nella prospettiva dello Ius Scholae o Culturae - i residenti stranieri sono oltre uno su nove, in termini assoluti più di un milione.

La strada più virtuosa per ridurre gli squilibri demografici non è certo quella del peggioramento delle condizioni di sopravvivenza delle generazioni più anziane, ma passa attraverso il rafforzamento della presenza delle generazioni più giovani. Così come la via principale per contenere il rapporto tra debito pubblico e PIL non è la mera riduzione della spesa pubblica, da rendere semmai più efficiente come investimento sociale, ma quella del miglioramento della crescita economica facendo leva sul ruolo attivo delle nuove generazioni nella transizione verde e digitale.

Tutto ciò che rafforza la consistenza quantitativa delle nuove generazioni (combinando natalità e attrattività) e il loro contributo qualificato ai processi di sviluppo e benessere nel territorio in cui vivono dovrebbe, allora, diventare una priorità condivisa.

In coerenza con ciò abbiamo soprattutto bisogno di migliorare le condizioni che consentono ai giovani – di qualsiasi genere, condizione familiare, luogo di provenienza - di dare il meglio di sé nei percorsi di formazione, di veder riconosciuti e sviluppati i propri talenti, di trovare adeguato orientamento rispetto alle proprie capacità e aspirazioni, di rafforzare il senso di appartenenza comunitaria, di sentire di crescere in un paese che vuole crescere con loro e che scommette sulla novità positiva che possono portare. Imporre ai nati in Italia da genitori immigrati, o arrivati qui in tenera età, di considerarsi stranieri nell’unico paese che conoscono, di non godere di pieni diritti e doveri di cittadinanza in tutto il periodo dell’obbligo scolastico (in una fase della vita cruciale del processo di socializzazione e di sviluppo dell’idea di sé e del proprio ruolo nel mondo), non va certo in tale direzione. Non aiuta loro, ma non aiuta nemmeno un paese pieno di squilibri a ritrovare slancio e fiducia nel proprio futuro.