Adesso che in Senato si comincia a votare sulle unioni civili sembra che tutta la riflessione su un problema così delicato debba strozzarsi in un dilemma, in un braccio di ferro, in una conta fra chi vuole "i diritti" e chi li nega, senza troppo pensare più ai contenuti, agli oggetti, alla sapienza o demenza delle nuove regole che si iniettano nell’ordinamento giuridico. Giustizia, per dirla con Ulpiano, è dare a ciascuno il suo. Non vuol dire "a tutti lo stesso", ma appunto a ciascuno il suo. Su queste pagine lo si è scritto e riscritto, ricordandolo anche in questi termini esatti:
unicuique suum. Se si pensa di confinare il clamoroso divario alla materia dell’adozione, ingoiando il resto, non dico certo che si tratti di una pagliuzza, anzi; ma ci sono ancora due travi che cavano gli occhi.
Se si tratta davvero di definire diritti appropriati ("il suo") è semplicissimo, anche ripassando un catalogo largo delle esigenze concrete e socialmente rilevanti: «Alle coppie omosessuali spettano i seguenti diritti: uno, due, tre, quattro, dieci, venti, quanto occorre», punto e fine. E tutti contenti, se il discorso iniziale era onesto.
Non onesto, anzi ipocrita è chiamare in soccorso della parità la nostra Corte costituzionale, la quale invece ha sempre detto chiaro e tondo che non si tratta di «una irragionevole discriminazione, in quanto le unioni omosessuali non possono essere ritenute omogenee al matrimonio» (sentenza n. 138 del 2010). E se non sono omogenee, la prima trave del disegno di legge messo ai voti è il rapporto di coniugio che si vuol introdurre nell’unione omosessuale. Non basta al pudore mentale il lessico, mondato della parola matrimonio come d’una buccia. A parte il modo caotico col quale la materia è rimestata, ove trascrivendo contenuti col copia-incolla, ove applicando il rinvio recettizio a blocchi, ove facendo mostra di riscrivere precetti arcinoti, di matrimonio si tratta. Sono coniugi, sono trattati da coniugi, e coniuge non è una parola qualunque, è una parola incollata a "matrimonio" dalla Costituzione (art. 29). Letteralmente si dice che tutto quello che nelle leggi si riferisce al "coniuge" viene riferito a ognuna delle parti dell’unione omosessuale.
Una curiosità: la parola "coniuge", nell’archivio legislativo, ricorre 1.756 volte (fonte: Italgiure.giustizia.it). Le avranno lette tutte? Sanno che nelle stesse leggi c’è anche la parola "marito" e la parola "moglie", qualche centinaio di volte? Così a caso, come pensano che si applichi la legge Merlin che raddoppia la pena quando lo sfruttatore è "marito"? Nel caso di omocoppia, sono mariti entrambi o nessuno? E se son due ragionieri-coniugi, per i quali il contributo di assistenza sanitaria è dovuto solo dal marito (legge n. 1140/70), a chi sarà chiesto per legge dal creditore se nessuno paga? Briciole, direte. No, sciatteria. In un campo dove gli errori di fondo si pagano cari.
La seconda trave è quella della disciplina della convivenza di fatto, che diviene una sorta di unione "leggera", etero e omo, con l’aria di regolare in quattro e quattr’otto un problema sociale estremamente complesso. Il legame non ha segnale decifrabile (la comune abitazione anagrafica non dice nulla, ci vuole altro per sapere se si tratta di una coppia o di un paio; e se son tre, che rebus); per la stabilità, non è scritto se occorre qualche anno o basta qualche week-end; il contratto è una facoltà; le controversie in tribunale sarebbero infinite e bisognose della solita "supplenza" dei giudici. Ma di più: la famiglia di fatto, giuridicamente non è quella a cui il diritto nega rilevanza, ma quella che per sua libertà rifiuta per sé la rilevanza del diritto. Si rilegga la sentenza n. 166 del 1998 della Corte costituzionale, prima di appiccicare alle convivenze (senza richiesta?) discipline familiari e diritti «spettanti al coniuge» (art. 8).Se si intende por mano a disciplinare le convivenze di fatto (quando hanno figura di "famiglia", da definirsi per chiara risultanza) il campo d’esame e d’intervento è molto più ampio; concerne anche i doveri, concerne le tutele di chi di fatto investe la sua vita (quali tutele in un rapporto che si scioglie per recesso unilaterale?); concerne gli aspetti patrimoniali congiunti (cumulo dei redditi, cessazione di reversibilità derivanti da precedenti vedovanze), eccetera. E anche qui si imporrebbe qualche minimo ripasso (o incuriosita lettura coscienziosa) del contesto normativo integrale sulla famiglia, per non costruire un altro tipo di famiglia
on demand, con scelte d’entrata e d’uscita, secondo quanto conviene al momento. Qui ci vuol tempo e saggezza, altro che imporre un regime di seconda serie; la fretta (e la superficialità) in queste cose è cattiva consigliera, e può essere socialmente disastrosa.