Il direttore risponde. Unioni gay: via le ipocrisie ma capiamo il nodo
Caro direttore,
abbiamo letto con attenzione i contributi al dibattito sul disegno di legge sulle unioni civili fra persone omosessuali in discussione in Parlamento. Condividiamo la sua formula sui diritti «patrimoniali e non matrimoniali», cui aggiungeremmo «individuali e non di coppia». La distinzione può sembrare di lana caprina, ma non lo è sul piano giuridico. Il riconoscimento di diritti individuali alla persona omosessuale che convive con altra persona dello stesso sesso – a partire dal diritto all’assistenza del convivente in ospedale, in carcere e così via, già ampiamente contenuto nelle leggi in vigore – non determina alcuna analogia con il matrimonio. Riconoscere invece la coppia in quanto tale, con apposita pubblica registrazione, prevedere una cerimonia simile a quella del matrimonio – in Municipio e con due testimoni –, far diventare quella coppia soggetto di diritti in quanto coppia, ne avvicina il regime a quello matrimoniale fino a farlo coincidere con esso. Non è sufficiente una clausola più o meno nominalistica con cui si affermi che l’unione civile è un «istituto giuridico originario», in quanto tale diverso dal matrimonio, come è scritto in un emendamento proposto da alcuni senatori del Pd: non è questione di nomi, ma di sostanza. Se nella sostanza tale «istituto» prevede diritti e doveri per la coppia in analogia alla famiglia fondata sul matrimonio lo si può chiamare come si vuole: la realtà è quella di un matrimonio.
Negli interventi pubblicati su “Avvenire” si dà rilievo – e con ragione – alle adozioni; la volontà degli italiani è chiara sul punto: un recente sondaggio di IPR Marketing, realizzato il 24 giugno, segnala che l’85% dei nostri connazionali è contrario alle adozioni da parte di coppie dello stesso sesso. Il ddl Cirinnà all’articolo 5 prevede la stepchild adoption, cioè l’adozione del figlio biologico o adottivo di uno dei conviventi omosessuali da parte dell’altro. Qualunque cosa dica chi appoggia questa norma, qui c’è una porta aperta anche per l’utero in affitto: se uno dei conviventi si reca all’estero e si procura un figlio con questa pratica – illegale in Italia –, questo figlio sarà biologicamente suo e dunque potrebbe essere adottato dall’altro convivente. Ma quand’anche l’articolo 5 sparisse, rimarrebbe la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo che fin dal 2013, in un caso relativo all’Austria – dove non c’è il “matrimonio” omosessuale, ma ci sono "unioni civili" analoghe a quelle del ddl Cirinnà – ha stabilito che nessun Paese europeo è obbligato a introdurre per le coppie omosessuali istituti simili al matrimonio, ma se lo fa non può poi “discriminare” queste coppie quanto alle adozioni.
La conclusione non ha alternative: chi punta all’approvazione di unioni civili ritenendo che il punto di mediazione accettabile sia l’eliminazione del riferimento alle adozioni vuole un circolo quadrato, qualcosa di giuridicamente impossibile. Basta poi ascoltare quanto dichiarano i principali ispiratori di questa legge, il sottosegretario Scalfarotto e l’ex parlamentare Paola Concia. Scalfarotto intervistato da la Repubblica il 16 ottobre 2014, ha spiegato che «l’unione civile non è un matrimonio più basso, ma la stessa cosa. Con un altro nome per una questione di realpolitik». Che l’«altro nome» duri poco lo afferma a chiare lettere Paola Concia su Il Foglio del 7 luglio scorso: «Eppure la legge contiene una piccola, per il momento necessaria, ipocrisia: è infatti una legge che di fatto introduce il matrimonio tra cittadini dello stesso sesso, ma senza dichiararlo esplicitamente (...). La legge adesso in discussione nel nostro Parlamento, che assomiglia alla legge in vigore in Germania, e ad altre leggi approvate in Francia, in Inghilterra e in Belgio, può essere considerata una specie di “cuscinetto”, un ponte: serve cioè a far capire che due persone dello stesso sesso possono essere benissimo considerate una famiglia. Una volta sperimentato che le unioni omosessuali (...) sono “famiglia” (..) poi queste unioni vengono chiamate "matrimonio", com’è accaduto in Inghilterra o in America per intervento della Corte suprema, vengono cioè equiparate anche sotto il profilo nominalistico. E si risolve così l’ipocrisia». Il dialogo va certamente coltivato: purché si sottragga alla «necessaria ipocrisia».
Grazie per la condivisione e per le acute sottolineature, cari presidenti. So anch’io che l’ipocrisia, che Gesù (Mt, 23) associa al formalismo interessato e vuoto dei «sepolcri imbiancati», porta lontano dal bene. Non può, dunque, essere ingrediente di un dialogo vero e serio. Ma so altrettanto bene che ogni dialogo per svilupparsi ha bisogno di intendersi, senza ipocrisie, sui termini fondamentali delle questioni affrontate. Per questo, non apprezzo affatto l’approccio politico e istituzionale del sottosegretario Scalfarotto (pronto a distribuire, l’ho sperimentato anche di persona, patenti di «malafede» o di «omofobia»), ma capace – come ricordate nella vostra lettera – di vantarsi (anche in coro) della doppiezza delle iniziative che prende e/o sostiene, come il ddl Cirinnà nella sua attuale e pessima versione. Per questo stesso rifiuto dell’ipocrisia, da quasi un lustro, non mi nascondo che la questione della regolazione nel nostro Paese delle unioni tra persone dello stesso sesso ha assunto contorni più chiari (e più complicati) a causa della sentenza della Corte costituzionale n.138 del 2010. Quella sentenza – che non è un testo sacro, ma con la quale da cittadini dobbiamo fare tutti i conti – ha rigettato la tesi del “diritto alle nozze gay”. La nostra Costituzione, checché qualcuno impapocchi, è infatti chiarissima sul punto. La Consulta, però, ha posto contemporaneamente il problema/opportunità di «riconoscere» non solo alle singole persone bensì all’«unione omosessuale», in quanto «stabile» convivenza, «il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone – nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge – il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri». La Corte fa riferimento all’articolo 2 della Costituzione (ruolo delle «formazioni sociali» dove si sviluppa la personalità umana) e non all’articolo 29 (riconoscimento della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio). Piaccia o non piaccia, insomma, non siamo più alla fase della disciplina dei diritti individuali. Si tratta perciò di trovare un percorso sensato – una “via italiana”, insisto da tempo – che affronti il nodo su un piano diverso da quello matrimoniale, che è strutturalmente il “piano dei figli” (con tutto quel che ne consegue a livello di mercificazione dell’umano, sino alla compravendita di grembi di madre e di gameti umani). Ecco perché parlo di un piano patrimoniale (che può diventare un piano della solidarietà). Il legislatore si sta orientando a sottolineare che si tratta di un istituto giuridico «originario»? A mio avviso, è una notazione importante e non solo un esercizio nominalistico. Purché si chiarisca che l’istituto giuridico delle unioni gay è «originario rispetto all’articolo 29 della Costituzione». Così non ci sarà davvero spazio per ipocrisie.